L’acqua e i frutti della terra sono elementi essenziali per la sopravvivenza delle persone, ma rappresentano anche beni da controllare, ricchezze da sottrarre al fine di sovrastare un intero territorio. Per capire come le risorse idriche e i prodotti agricoli possano diventare armi di dominio di un popolo è sufficiente spostare lo sguardo in Palestina. In particolare è necessario conoscere in che modo Israele riesca ad assettare e affamare i palestinesi.
Breve cronistoria del water grabbing
È bene ricordare che Israele è leader mondiale nella tecnologia e nella gestione delle risorse idriche. Un esempio della sua grandezza nel settore è rappresentato dagli impianti di desalinizzazione dell’acqua marina. Lo stabilimento più grande del mondo si trova a Sorek, vicino a Tel Aviv; l’eccesso di produzione di questa struttura viene convogliato nel lago di Tiberiade, il principale deposito d’acqua dolce israeliano che ha però raggiunto livelli minimi storici. Fino a questo momento nessun Paese aveva mai alimentato un lago naturale con acqua dissalata, un primato che si aggiunge alla lista dei successi israeliani che, come vedremo, sono spesso avvenuti a repentaglio del popolo palestinese.
Partiamo da un dato significativo: Israele controlla l’80% delle riserve idriche della Cisgiordania, terra spesso colpita da gravi problemi di siccità. Israele e la Cisgiordania condividono due importanti fonti d’acqua – la falda acquifera montana e il bacino del fiume Giordano –, entrambe sotto controllo israeliano dal 1967. Il 1967 è un anno emblematico, perché da quel momento ai palestinesi che vivevano nei territori occupati venne impedito di scavare nuovi pozzi e di effettuare lavori di manutenzione di quelli già esistenti. Le difficoltà dei palestinesi di accedere all’acqua potabile si sono inasprite con gli Accordi di Oslo II.
Nel 1995, infatti, è stato creato il Joint Water Commitee con l’obiettivo di gestire e coordinare le risorse idriche condivise in Cisgiordania. Quello che sarebbe dovuto essere un patto di intesa, si è poi rivelato un ulteriore ostacolo. Gli accordi prevedevano infatti che ogni progetto inerente alla costruzione di nuovi pozzi o acquedotti venisse approvato da entrambe le parti con il risultato che Israele, detenendo il diritto di veto, bloccava le proposte avanzate dalla Cisgiordania.
Muri e acqua in Palestina
La situazione peggiora ulteriormente nel 2002 con l’inizio della costruzione di una barriera di separazione tra la Cisgiordania e Israele. Il muro è stato costruito quasi interamente sulle terre palestinesi e ha danneggiato o distrutto numerosi pozzi portando a un ennesimo calo dei consumi d’acqua della popolazione della Palestina sia in termini agricoli sia in quelli domestici. Non paghi di questo disequilibrio, prassi dei coloni israeliani è stata quella di deviare le risorse idriche e sequestrare pozzi. Per capire le ripercussioni sulla vita quotidiana, basta leggere il rapporto Parched del 2023 pubblicato dal centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati B’Tselem. Gli israeliani, compresi quelli che vivono negli insediamenti, consumano in media 274 litri di acqua al giorno a persona, mentre i palestinesi della Cisgiordania 82,4 litri e quelli che vivono in comunità non collegate alla rete idrica 26 litri.
La situazione è ancora peggiore a Gaza dove, ancora prima del 7 ottobre del 2023, l’acqua disponibile non soddisfaceva i bisogni primari della popolazione e dove lo scenario diventa sempre più drammatico. La reazione all’attacco di Hamas ha visto, infatti, come obiettivo strategico l’acqua. Secondo l’Oxfam, a Gaza City sono stati distrutti o danneggiati l’88% dei pozzi e il 100% degli impianti di desalinizzazione. In quelle zone si sopravvive con 4,74 litri d’acqua a persona, meno di un terzo del fabbisogno quotidiano raccomandato in situazioni di emergenza.
Ulivi distrutti
Rimaniamo in Cisgiordania dove circa il 45% dei terreni agricoli è occupato da 10 milioni di ulivi che hanno una potenziale produzione annua di 35mila tonnellate di olio. L’ulivo rappresenta il sostentamento del popolo palestinese dando lavoro a centinaia di migliaia di famiglie, numero aumentato dopo il 7 ottobre, quando il presidente Netanyahu ha revocato i permessi di lavoro a circa 150mila manovali palestinesi della Cisgiordania che lavoravano in cantieri israeliani. Il tasso di disoccupazione ufficiale in West Bank ha raggiunto il 30%, una percentuale che spiega come il lavoro agricolo abbia un’estrema importanza all’interno dell’economia della Palestina, eppure la raccolta delle olive sta diventando sempre più difficoltosa a causa degli attacchi dei coloni che bruciano, danneggiano o rubano le piante.
È la stessa Oxfam a denunciare il fatto che nel solo mese di novembre 2024, oltre 1.450 ulivi sono stati sradicati o incendiati, mentre più di 6.500 sono stati depredati dai loro frutti, provocando una perdita stimata di oltre 52mila kg di olio. Le violenze non si limitano però agli alberi, ma toccano gli agricoltori spesso impediti con la forza di recarsi nei campi, tuttavia i contadini palestinesi continuano a lottare per la loro terra. L’ulivo non è una pianta qualunque, ma rappresenta il legame del popolo palestinese con la sua regione: se da una parte questo significato fa sì che i campi di ulivi rappresentino un bersaglio per gli israeliani, dall’altra rende ogni raccolta un momento di dignità e resistenza.
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