inquinamento pianeta contaminazione ambientale industria acqua vista aerea da drone di un impianto industriale che produce sostanze per- e polifluoroalchiliche, PFAS

Per eliminare le sostanze perfluoro alchiliche o PFAS dalle acque oggi si ricorre a metodi fisici quali la filtrazione per osmosi e quella con carbonio. Entrambi presentano diversi limiti, e sono relativamente costosi ma, finora, non esistono molte alternative. Gli PFAS sono caratterizzati da molecole con atomi di carbonio legati ad atomi di fluoro attraverso un legame talmente forte che, mentre assicura ai materiali plastici che li contengono una durata teoricamente illimitata, rende quasi impossibile la loro degradazione chimica. Infatti sono chiamati contaminanti perenni. E per questo, per eliminarli, di solito si ricorre alla filtrazione, e non alle reazioni chimiche: occorrerebbe troppa energia, e non si avrebbe un esito ottimale. Tutto ciò, tuttavia, in un futuro non molto lontano potrebbe cambiare, grazie a un approccio completamente diverso, che sta dando risultati incoraggianti: quello della cosiddetta biomimetica, cioè l’imitazione di quanto accade in natura.

Pfas e microbiota

Negli ambienti dove gli PFAS sono concentrati quali, per esempio, i suoli contaminati, esiste un microbiota specifico, che riesce a trarre nutrimento anche da queste sostanze. Poiché ai batteri serve il carbonio, ma non il fluoro, di solito le specie presenti si sono evolute per scindere il carbonio dal fluoro, e avere così a disposizione quanto necessario per vivere e riprodursi. Individuando le specie che hanno sviluppato tali capacità, si può verificare se sia possibile utilizzarle per depurare le acque, i suoli stessi o qualunque materiale risulti contaminato. Ed è ciò che propongono di fare due studi pubblicati di recente, nei quali sono state identificate almeno due specie batteriche adatte.

I batteri californiani

Il primo, pubblicato qualche mese fa su Science Advances dai ricercatori dell’Università della California di Riverside, in realtà non fa riferimento a un ambiente specifico, ma a una famiglia di batteri molto comuni negli scarichi delle acque reflue, quella degli Acetobacterium spp. Grazie a una serie di test chimici, gli autori hanno dimostrato che alcuni ceppi degradano il legame tra carbonio e fluoro, ma solo nelle molecole che hanno anche certi legami tra carbonio e carbonio (insaturi). Questo potrebbe limitarne l’impiego, ma il dato più importante è probabilmente un altro: nello studio è stato caratterizzato l’enzima che riesce a scindere il legame tra carbonio e fluoro.

Piastra petri con colonie di batteri; concept: microbiologica, rischio microbiologico, Salmonella, Listeria, Escherichia coli, pfas
Alcuni microrganismi riescono a degradare diversi tipi di PFAS

E ciò significa che lo stesso potrebbe essere utilizzato senza ricorrere all’intero batterio, e potrebbe costituire un modello per realizzarne altri con caratteristiche migliori (che, per esempio, non abbiano il limite della molecola con legami insaturi) rispetto allo scopo della depurazione delle acque o della bonifica dei terreni, o per identificarne di simili in altri ceppi batterici.

Il batterio portoghese

Il secondo studio è uscito invece in questi giorni su Science of The Total Environment, condotto dai ricercatori dell’Università di Porto, in Portogallo, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Buffalo e di Pittsburgh, negli USA.
In questo caso, gli autori hanno studiato attentamente il suolo di un sito noto per la contaminazione da PFAS in Portogallo, a Estarreja, e hanno isolato un batterio aerobico, della famiglia delle Xanthobacteraceae, che hanno chiamato Labrys portucalensis F11 (per brevità F11). Il microrganismo riesce a degradare almeno tre tipi di PFAS, oltre a una serie di farmaci e composti organici che contengono fluoro.

Messo a contatto gli PFAS (in concentrazioni pari a 10 milligrammi litro), in mancanza di altre fonti di carbonio, è capace di degradare il 90% dell’acido perfluorottanoico o PFOS (uno degli PFAS più diffusi e pericolosi), in cento giorni e, nello stesso arco di tempo, di degradare anche altre due molecole della famiglia, una del 58% e una del 21%. Inoltre, in 194 giorni, riesce a degradare alcuni metaboliti, molecole più piccole degli PFAS originari e, proprio per questo, ancora più difficili da eliminare.

Ora gli esperimenti continuano per capire come indurre F11 a lavorare meglio, impiegando meno tempo, anche in ambienti nei quali può esserci qualche altra fonte di carbonio (situazione molto più realistica), che potrebbe orientare il suo metabolismo verso di essa.
Le abilità di F11, così come quelle degli Acetobacterium spp, potrebbero rivelarsi estremamente utili, nei tentativi di eliminare gli PFAS dall’ambiente. In attesa che l’utilizzo di questi contaminanti sia vietato, o fortemente ridimensionato.

© Riproduzione riservata. Foto: Depositphotos.com

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