La lobby dell’uva senza semi sta conquistando i mercati
La lobby dell’uva senza semi sta conquistando i mercati
Manuela Soressi 6 Novembre 2024Exotic pearl, Sugar crisp o Candy snaps? Difficile per un consumatore tenere il passo con l’incessante lancio di nuove varietà di uva da tavola vendute al supermercato. A differenziarle sono il periodo in cui si trovano in commercio, le sfumature di colore e di gusto, la forma degli acini e del grappolo. Ma ad accomunarle sono solo due elementi: sono varietà apirene, ossia prive di semi (le cosiddette seedless), e sono ‘brevettate’, ossia possono essere coltivate solo pagando i diritti d’uso alle società che le hanno sviluppate. In Italia come nel resto del mondo.
L’affermazione a livello globale delle varietà senza semi ha modificato l’assetto del fiorente mercato mondiale dell’uva da tavola, che ha visto la produzione crescere a livelli record: +20% in una decina d’anni. Produttori storici, come l’Italia, si sono trovati in difficoltà perché concentrati sulle varietà classiche, mentre Paesi emergenti (come Perù e Cile) si sono affermati puntando tutto sulle seedless. Oggi l’Italia resta il primo produttore (circa un milione di tonnellate di annue) ed esportatore (43% di export) d’Europa. Ma nella classifica mondiale l’Italia è scesa al settimo posto dal primo dov’era fino al 2010, penalizzata anche (ma non solo) dal suo focus sulle varietà storiche con semi (come l’uva Italia, la Victoria e la Red Globe), che ne rappresentano la maggior parte della produzione.
Chi vuole l’uva senza semi?
L’assunto che sta dietro al passaggio dalle uve con semi a quelle senza è l’esigenza di assecondare i gusti dei consumatori, che preferiscono l’uva priva di semi. Il che è solo parzialmente condivisibile. Nei Paesi privi di una tradizione di consumo (come il Regno Unito) l’uva si sta facendo conoscere attraverso le varietà seedless che al momento sono percepite come lo standard di prodotto e quindi sono le più accettate. Laddove l’uva è un frutto tradizionale (come nell’Europa centrale e meridionale) le varietà con semi continuano a incontrare il gusto di molti consumatori, che ne apprezzano il sapore e il profumo. Per questo motivo l’esigenza di passare ai grappoli con acini privi di semi sembra meno sentita.
Chi insiste sull’urgenza e l’ineluttabilità di questo passaggio sono i breeder, ossia gli sviluppatori di nuove varietà, che detengono la proprietà intellettuale, tramite le privative varietali, e ne concedono la licenza d’uso a pagamento, per rientrare degli investimenti compiuti negli anni. Uno scenario ben diverso rispetto alle varietà classiche, che sono perlopiù libere anche per quanto riguarda moltiplicazione, riproduzione e commercializzazione.
Chi ci guadagna?
A spingere sull’uva senza semi sono i grandi gruppi specializzati internazionali (in particolare statunitensi, israeliani e spagnoli) che hanno investito sul loro sviluppo, continuando a creare nuove varietà di cui cedere la licenza alle società commerciali, che a loro volta la trasferiscono agli agricoltori. Per la coltivazione occorre pagare al breeder una royalty, che può essere calcolata sull’impianto (in base al numero di piante o agli ettari) a cui spesso si aggiunge una percentuale calcolata sul valore del prodotto commercializzato.
In quest’ultimo caso si parla di “formula a club”, un modello applicato da decenni nel mondo delle mele e che ora viene applicato anche ad altri prodotti ortofrutticoli. A partire proprio dall’uva da tavola. In pratica, sono le aziende commerciali licenziatarie a decidere quali varietà coltivare e su quali ettari in base ai loro programmi di natura commerciale. Gli agricoltori devono rispettare questi piani e conferire tutto il raccolto alla società licenziataria, l’unica a poterlo immettere sul mercato.
I ‘pirati’ dell’uva senza semi
Un sistema ben orchestrato ma con alcuni punti deboli. Alle critiche per l’asimmetrica ripartizione dei proventi a favore dei breeder e per una non sempre ampia trasparenza sulle condizioni contrattuali e sui prezzi di vendita, si accompagnano i tanti episodi di ‘pirateria’ con il proliferare di impianti non autorizzati in cui sono coltivate cultivar ‘protette’. Un problema tanto ampio da aver spinto quattro delle maggiori società che hanno sviluppato la nuova uva (le statunitensi Sun World, Snfl e Ifg, più l’israeliana Grapa Varieties) ad allearsi per combattere la produzione e riproduzione non autorizzata delle loro varietà.
La situazione appare ancora più complicata in Italia, dove le varietà senza semi stanno prendendo piede, in particolare nella regione di maggiori produzione, la Puglia (57% del totale nazionale), dove rappresentano quasi il 100% dei nuovi impianti. Nel maggio 2024 la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza in cui ha riconosciuto il diritto dei produttori alla libera commercializzazione dell’uva ottenuta dalle piante propagate legittimamente e per le quali siano già state pagate le royalties. Un pronunciamento ‘storico’ di cui ora si aspettano gli effetti pratici, su cui gli stessi operatori di settore non si sbilanciano.
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Giornalista freelance, scrive di consumi e retail per testate di economia (come Il Sole 24 Ore, Gdo Week e Mark Up) e racconta l’evoluzione del mondo alimentare (e il turismo enogastronomico) su Sale&Pepe e Donna Moderna. È opinionista di Tendenzeonline, autrice di due libri monografici (uno sui limoni e l’altro sui radicchi) e redattrice dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy, il rapporto semestrale sui consumi degli italiani.