Un nuovo studio, pubblicato su Frontiers in Microbiology dai ricercatori dell’Ibiom e dei dipartimenti di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti e di Bioscienze, biotecnologie ebBiofarmaceutica dell’Università degli Studi di Bari insieme a Food Safety Lab, si è occupato di testare alcune metodologie per aumentare il periodo di conservazione della pasta fresca. L’approccio scelto dai ricercatori ha previsto una variazione nel materiale dell’imballaggio e nella composizione dell’atmosfera di conservazione, ma è stata valutata anche la possibilità di aggiungere probiotici all’impasto. Secondo i risultati ottenuti, integrare queste metodologie in fase di produzione permetterebbe di allungare il periodo di conservazione della pasta fresca sugli scaffali di ulteriori 30 giorni rispetto alle tempistiche consuete.
La scadenza della pasta fresca varia in base a fattori come il trattamento termico, la temperatura di conservazione, l’eventuale utilizzo di conservanti e il confezionamento in atmosfera modificata. Quest’ultima tecnica, anche chiamata MAP (Modified Atmosphere Packaging), è utilizzata già da diverso tempo in ambito industriale per aumentare considerevolmente la shelf life della pasta fresca (ma anche di altri prodotti alimentari). Nel caso della pasta, la MAP consiste nell’utilizzo di gas come anidride carbonica e azoto all’interno della confezione in cui viene commercializzata, al fine di prolungarne la stabilità e limitare la proliferazione dei microrganismi, ma risulta anche utile a mantenere il volume della confezione per limitare urti e schiacciamento.
In base a questi criteri la pasta fresca normalmente può essere consumata in un periodo che varia dai 30 ai 90 giorni dopo il confezionamento. Lo studio si è concentrato sulla valutazione delle metodologie di mantenimento del prodotto preparato senza l’utilizzo di conservanti (chiamati anche metodi ‘clean label’) affinché il prodotto finale andasse incontro alle preferenze di molti consumatori.
I ricercatori hanno lavorato in collaborazione con un pastificio semi-industriale di Altamura utilizzando trofie fresche come base per la ricerca. Per valutare le differenze sono stati creati tre campioni: nel primo, che ha funzionato da controllo, le trofie sono state conservate con la metodologia tradizionale, cioè inserite nella confezione normalmente utilizzata, con un’atmosfera modificata composta dal 20% di anidride carbonica e dall’80% di azoto. Il secondo campione è stato conservato all’interno di una confezione prodotta con un materiale meno permeabile all’acqua e all’ossigeno, con un’atmosfera composta dal 40% di anidride carbonica e dal 60% di azoto.
Anche il terzo campione è stato soggetto a queste condizioni, ma in questo caso l’impasto delle trofie è stato modificato con l’aggiunta nella semola di una miscela di probiotici (Lactobacillus acidophilus, Lactobacillus casei, Lactobacillus paracasei, Bifidobacterium animalis, Bacillus coagulans). Le modifiche applicate al secondo e al terzo campione avevano l’obiettivo di ridurre la proliferazione dei microrganismi in grado di sopravvivere al trattamento termico della pasta, senza però alterare le proprietà organolettiche del prodotto.
Tutti e tre i campioni di trofie sono poi stati conservati a 4°C: il primo dopo 90 giorni ha mostrato una diminuzione nel quantitativo di anidride carbonica, lo sviluppo di muffe e l’aumento del quantitativo di microrganismi, mentre nell’arco di 120 giorni il secondo e il terzo campione hanno mostrato maggiore stabilità nella presenza di microrganismi, e non si è verificato lo sviluppo di muffe. Nel campione con probiotici nell’impasto la presenza di microrganismi è risultata ancora inferiore.
Dal risultato si evince che anche la differente atmosfera di conservazione combinata con un imballaggio meno permeabile permette di allungare la shelf life della pasta fresca di circa 30 giorni. Si tratta quindi di un metodo in grado di ridurre la perdita di qualità del prodotto nei primi 120 giorni dal confezionamento. I ricercatori inoltre ritengono che i dati ottenuti nel campione contenente probiotici possano incoraggiare ulteriori studi sull’utilizzo di questi microrganismi nei prodotti a base di cereali per limitarne il deterioramento.
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