Il mercato dei probiotici vale 30 miliardi di dollari e la tendenza non da segni di arresto, visto che ogni mese arrivano puntualmente uno stuolo di nuovi prodotti. Le virtù benefiche dichiarate sono molte e vanno da una regolazione della flora batterica intestinale, al rinforzo delle difese immunitarie, ma ci sono anche diciture assai fantasiose che lasciano perplessi. Di certo la flora batterica intestinale può subire squilibri causati dall’assunzione di antibiotici, da una dieta sbilanciata, dallo stress e molto altro, ma ciò non significa che per riportarla alla normalità sia sempre necessario o utile assumere probiotici.
Nel 2010 il settore ha però subìto un brutto colpo quando l’EFSA ha bocciato la quasi totalità dei claim salutistici proposti sulle etichette dei probiotici per insufficienza di prove. L’Agenzia ha rispedito al mittente i dossier che, nella stragrande maggioranza dei casi, erano stati stilati studiando l’effetto dei batteri su persone con qualche patologia. La bocciatura è dovuta al fatto che questi prodotti sono venduti a tutti, e quindi l’effetto vantato deve essere comprovato su una popolazione sana.
Dal punto di vista scientifico la posizione dell’ente regolatorio è giustificata, ma tale rigore ha causato un’impasse notevole alle aziende. I produttori avrebbero dovuto effettuare nuove sperimentazioni, rese ancor più difficoltose dall’assenza – a loro dire – di indicazioni chiare sui requisiti dei nuovi dossier.
Per limitare le speculazioni, sostenere la ricerca e dare un po’ di ordine al settore, Gregor Reid, direttore del Canadian R & D Centre for Probiotics della Schullich School of Medicine & Dentistry della Western University e già autore, nel 2001-2002 delle Linee guida per la valutazione dei probiotici, ha scritto un accorato articolo su Nature, in cui chiede un vero e proprio giro di vite.
«I consumatori – sostiene Reid – hanno assai pochi elementi per capire se ciò che stanno assumendo è stato studiato nell’uomo e quali sono gli effetti sulla salute. I ricercatori, dal canto loro, non sanno bene come procedere negli Stati Uniti, perché la FDA obbliga a inserire tutto ciò che può avere effetti sulla salute nella categoria dei farmaci e, di conseguenza, non è possibile verificare l’effetto di un probiotico, per esempio, sul colon irritabile se prima quel determinato ceppo non è stato registrato come farmaco, con tutti i test preliminari necessari. Anche in Europa l’approccio è stato molto rigido, sia pure con modalità diverse. Tutto ciò ha bloccato la ricerca e lasciato i consumatori in un limbo».
Per questo motivo l’esperto propone che il probiotico non venga considerato un farmaco, ma sia obbligato a superare un livello minimo di test, al di sotto dei quali non può rientrare nella categoria. «Una volta effettuati i test – continua Reid – bisognerebbe prendere spunto dal sistema giapponese, e cioè creare due classi di prodotti, in relazione al tipo di analisi effettuate. La categoria 1 comprenderebbe solo i prodotti che sono stati sottoposti a test approfonditi, mentre la 2 raggrupperebbe quella dei prodotti che rispondono a una serie di caratteristiche di base, ma per i quali mancano dati circostanziati come quelli della prima categoria. In questo modo i ricercatori saprebbero come procedere, le aziende potrebbero muoversi dentro un recinto sicuro di norme, e i consumatori sarebbero in grado di effettuare una scelta informata».
Commenta Lorenzo Morelli, ordinario di Microbiologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, esperto di probiotici ed estensore, insieme a Reid, delle Linee Guida del 2001: «Anche se la situazione nordamericana è leggermente diversa da quella europea, in linea generale sono d’accordo con quanto proposto da Reid: c’è bisogno di un ripensamento.
In Europa è ancora più necessario perché l’impostazione dell’EFSA, pur condivisibile, è molto rigida e lascia poco spazio per prodotti che non sono farmaci, ma che andrebbero comunque, in molti casi, sostenuti. Non dimentichiamo che l’assunzione di un probiotico può aiutare a risolvere sintomi quali quelli del colon irritabile, oppure a prevenire l’accumulo di colesterolo senza bisogno di ricorrere a farmaci e laddove tali effetti siano sufficientemente dimostrati, il consumo andrebbe promosso anche dalla Sanità.
Se si facesse maggiore ricorso a questo tipo di alimenti, si potrebbero lasciare i farmaci veri e propri (e i loro effetti collaterali) solo ai casi in cui ve ne sia una reale necessità, con grandi vantaggi per tutti. Una regolazione ad hoc, inoltre, tutelerebbe i consumatori da vere e proprie truffe, perché scomparirebbero i claim infondati».
Agnese Codignola
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