Ci è voluto mezzo secolo ai Paesi europei per contribuire allo sviluppo delle ex-colonie, in misura variabilmente inefficace (il primo sostegno dell’Europa alle ex-colonie africane risale infatti al 1963, con le convenzioni di Yaoundé). Ma sono bastati cinque anni alle economie emergenti per conquistare buona parte dei terreni coltivabili nei Paesi in Via di Sviluppo e garantirsi fonti di approvvigionamento.
L’1 novembre 2010 è entrata in vigore la seconda revisione dell’Accordo di Cotonou tra l’UE e i 79 Paesi ACP (Africa, Carabi e Pacifico), che regola i rapporti di cooperazione tra l’Europa e le sue ex colonie. In questa fase sono stati delineati i nuovi punti-chiave della cooperazione nel settore alimentare:
1) Sviluppo del settore economico: la cooperazione deve supportare la politica sostenibile, le riforme istituzionali e gli investimenti necessari per un accesso equo alle risorse produttive e alle attività economiche. In particolare: lo sviluppo di strategie per migliorare produzione agricola e produttività dei Paesi ACP, mediante il finanziamento della ricerca e delle infrastrutture in agricoltura, e della gestione del rischio. Si riconosce inoltre il ruolo chiave della pesca sostenibile nei Paesi ACP e il suo contributo alla creazione di lavoro, alla “food security” (vale a dire, la sicurezza nella disponibilità di forniture alimentari), alla riduzione della povertà, ecc.
2) La cooperazione: la cooperazione europea deve assicurare lo sviluppo economico, la libera circolazione di merci, persone, servizi, capitali, lavoro e tecnologie tra i Paesi ACP nonché lo sviluppo del commercio tra questi e i Paesi terzi. Nell’ambito delle politiche regionali, la cooperazione deve sostenere le priorità delle aree ACP, con particolare attenzione ai temi della “food security” (vale a dire, la disponibilità di cibo per le popolazioni) e dell’agricoltura.
3) Prospettive: il presente dei Paesi ACP è almeno in parte nelle nostre mani, visti anche gli scarsi risultati sinora ottenuti in sede ONU nell’ambito dei MDG (“Millennium Development Goals”). E il nostro futuro è in buona parte affidato allo sviluppo agricolo di questi Paesi, sempre che il neo-colonialismo di Cina, Corea del Sud, India, Stati del Golfo arabo non prenda il sopravvento.
Neo-colonialismo agricolo e “land grabbing”
Da cinque anni a questa parte, colossi economici governativi e non (quali Petrochina, prima impresa di Stato della “People Republic of China”) realizzano enormi investimenti sulle distese agricole dei Paesi in Via di Sviluppo, per garantirsi l’approvvigionamento diretto delle derrate.
L’espressione “neo-colonialismo” – coniata dal Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf – è riferita ai terreni ove si realizza circa un quinto della produzione mondiale di cibo, oggetto di conquiste da Paesi più o meno lontani come Cina e Corea del Sud, India, Kuwait, Qatar, Yemen, Arabia Saudita.
La Banca Mondiale stima che gli acquisti e gli affitti internazionali di terre interessino circa 50 milioni di ettari in Africa, Asia e America Latina: una stima prudente in assenza di notizie certe, a causa dell’opacità di contratti spesso non soggetti a obblighi di registrazione.La Cina, per citare qualche esempio, si è aggiudicata proprietà e sfruttamento di latifondi in Camerun, Tanzania e Monzambico (per il riso), Uganda e Zimbabwe (cereali), Filippine, Laos, Kazakhstan, ecc.
Alcuni osservatori parlano di vero e proprio “land grabbing” (appropriazione di terreni), in casi come quello della sud-coreana Daewoo che nel 2008 aveva provato ad acquisire un diritto di utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari, il 50% delle terre arabili del Madagascar per la durata di 99 anni (tentativo poi fallito grazie alle proteste internazionali).
Le differenze tra il metodo neo-colonialista e l’approccio europeo alla cooperazione non sono del tutto rascurabili.
1) accesso delle popolazioni locali alle risorse produttive. I “neo-coloni” spesso acquistano le piantagioni direttamente dai governi locali, in assenza di diritti o documenti che riconoscano e attestino la proprietà di molte aree
2) destino delle produzioni. I raccolti sono esclusivamente destinati all’export. Si investe solo sulle monoculture (senza badare alla loro in-sostenibilità), in alcuni casi per produrre bio-carburanti anziché cibo.
Il paradosso? Paesi come il Sudan e l’Etiopia, a dispetto della grave malnutrizione che affligge le loro popolazioni, sono grandi esportatori di derrate agricole delle quali hanno completamente perso il controllo.
Ma il diritto internazionale (OMC, contratti bilaterali di investimento) tuttora non lascia scampo.
Per approfondire:
– Paesi ACP e accordi di cooperazione: http://www.acp.int
– “Millennium Development Goals” (MDP), il Rapporto 2010:
http://www.un.org/millenniumgoals/pdf/MDG%20Report%202010%20En%20r15%20-low%20res%2020100615%20-.pdf
– Neo-colonialismo agricolo e “land-grabbing”:
http://www.fuoritempo.info/index.php?option=com_content&task=view&id=2702&Itemid=2523
http://www.fiorigialli.it/dossier/view/1_biononbio/1895_il-neocolonialismo-agrario
© Riproduzione riservata. Foto: Photos.com
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Avvocato, giornalista. Twitter: @ItalyFoodTrade