L’attuale livello di consumi porterà a un collasso globale? A confronto i dati di uno studio del MIT, degli anni Settanta, con quelli disponibili oggi. Nel 1972, quattro ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology) pubblicarono un rapporto dal titolo “The Limits to Growth“. Sulla base di modelli scientifici e matematici, venne ipotizzato che mantenere le tendenze di crescita dei consumi avrebbe condotto al collasso dell’economia globale entro il 2030. Quarant’anni dopo, quelle previsioni ritrovano attualità.

 

Lo studio condotto nel 1972  dall’Istituto “Jay W. Forrester” del MIT, aveva messo a confronto gli sviluppi dei consumi sul pianeta con le risorse naturali a disposizione. Un calcolo tutt’altro che semplice, in ragione delle molte variabili relative alla stima effettiva dell’ammontare delle risorse e dei livelli differenziati di resa delle colture agricole, del controllo delle nascite, della protezione dell’ambiente. L’approssimazione era ritenuta eccessiva dagli stessi ricercatori.

 

Quattro decadi sono trascorse e le profezie del 1972, che già apparivano infauste, sono confermate dal corso della storia. Addirittura, rispetto al calendario a suo tempo indicato, l’esaurimento delle ricchezze naturali ha subito un’accelerazione.

 

All’approssimarsi del termine dato, il 2030, il fisico australiano Graham Turner ha aggiornato lo studio MIT del 1972, comparando le previsioni riferite al 2000 con i dati reali frattanto verificati. I calcoli di allora risultano più realistici di ogni ragionevole aspettativa. «Un campanello d’allarme suona con chiarezza, – afferma Turner – non ci troviamo su una traiettoria sostenibile».

 

Sebbene i leader mondiali abbiano avuto consapevolezza di questa traiettoria per diverse decadi, le politiche auto-referenziali basate sull’inseguimento di profitti nel breve termine hanno solo favorito una maggiore voracità dei consumi e degli sprechi. Le elaborazioni di Turner infatti dimostrano che in alcuni casi gli indici di crescita della popolazione, e la domanda di cibo e servizi (come l’energia, ad esempio) hanno superato nei fatti le previsioni dello studio MIT.

 

«Solo misure drastiche per la tutela dell’ambiente potranno interrompere questo circolo vizioso», è il commento del “Club di Roma”, il think-tank italiano che commissionò la ricerca del MIT. I ricercatori a suo tempo non avevano ragione per ipotizzare, come invece è successo, che la crescita e la sostenibilità non potessero accompagnarsi, esito di una sostanziale paralisi delle politiche internazionali su questo tema. Di fronte alla prospettiva di esaurire definitivamente le risorse a disposizione di una popolazione in crescita, non resta che affidarsi alla Conferenza di Rio de Janeiro (Rio+20, dal 20 al 22 giugno 2012).

 

Abbiamo raccolto l’opinione di Vittorio Prodi, un esperto di queste tematiche, che parteciperà – come rappresentante del Parlamento europeo, in quanto membro della Commissione Envi (Environment, Food Safety and Public Health) – al “Segmento di alto livello”, cioè la sessione che stenderà il documento finale della Conferenza di Rio+20. «Nei vent’anni trascorsi dalla prima Conferenza sono stati fatti grandi passi avanti, nel definire alcuni dei valori che fondano le nostre comunità: sostenibilità e biodiversità, anzitutto», spiega il professore. «Comprendere che le risorse naturali sono limitate, ed essere coscienti della incapacità del pianeta di accogliere gli scarti. Al tempo stesso impegnarsi a rispettare la biodiversità, nella consapevolezza che le specie vegetali e animali hanno specificità che devono venire conservate, se vogliamo evitare perdite irreparabili».

 

 

Quale futuro ci attende, cosa possiamo aspettare dalla  prossima riunione di Rio+20?

«Mi aspetto di vedere  il concetto di “bene comune” tradotto in dispositivi politici a fondamento di una nuova organizzazione della società stessa. Occorre arrivare a una vera e propria definizione di questi beni, nella consapevolezza che adottandoli non solo si dà corso a un salto avanti della civiltà e si riduce la pressione sul consumo di beni materiali, ma ci si avvicina all’equità. Perchè abbiamo bisogno di un’equità su scala globale, internazionale e intergenerazionale, che diventi autentica solidarietà, vettore per un nuovo sviluppo sostenibile. Se non vogliamo fare pagare a chi verrà dopo di noi il prezzo di decisioni sbagliate che prendiamo oggi.

 

Va rifiutata la vecchia concezione dei tre pilastri indipendenti – economico, sociale e ambientale – e bisogna invece riconoscere la natura interdipendente di questi tre elementi, perché indivisibili. Mi aspetto che si possa andare oltre la free economy, che si assuma la necessità di una trasformazione del concetto di civiltà, che si segni davvero una svolta politica nella pianificazione dello sviluppo del pianeta.»

 

Dario Dongo