Quando si citano gli acidi grassi cosiddetti trans (denominazione data dalla configurazione della molecola nello spazio), l’associazione è immediata: si tratta di grassi nocivi che favoriscono la formazione di placche aterosclerotiche nei vasi, aumentano il rischio di malattie cardiovascolari e di tumori e che per questo andrebbero banditi dall’alimentazione.

La realtà, tuttavia, è abbastanza lontana da questa visione stereotipata, perché di acidi grassi trans ce ne sono molti, diversi tra loro e organizzati in almeno due grandi famiglie: quelli di derivazione animale e quelli che si formano in seguito a processi industriali come l’idrogenazione. I primi sarebbero tutt’altro che pericolosi; anzi, alcuni di essi eserciterebbero un effetto benefico sulla salute, mentre i secondi sarebbero dannosi, ma solo in alcuni casi specifici.

Per fare un po’ di chiarezza Spencer Proctor, direttore del Metabolic and Cardiovascular Disease Laboratory dell’Università dell’Alberta, ha preso in esame decine di studi pubblicati negli ultimi anni sull’argomento di tipo sia epidemiologico, su grandi campioni di popolazione, sia sperimentale, su modelli animali e colture cellulari. E ha poi pubblicato un dettagliato resoconto su Adavances in Nutrition.

In sintesi, i dati oggi disponibili sembrano scagionare i grassi trans di derivazione animale e in particolare quelli derivanti dai ruminanti come l’acido vaccenico i quali, al contrario, sarebbero associati a una diminuzione del colesterolo circolante, a un riequilibrio delle alterazioni dei grassi nei sangue, a un rallentamento dell’aterosclerosi e, forse, a una diminuzione del rischio di sviluppare alcuni tumori.

Si tratta dunque in ogni caso di effetti positivi di diversa entità, ma mai negativi, anche se l’autore sottolinea che i numeri oggi a disposizione vengono da studi condotti in maniera molto disomogenea, su modelli diversi oppure si campioni di persone alquanto limitati.

Lo stesso limite si riscontra nelle ricerche che hanno preso in esame i grassi trans industriali, i più comuni dei quali derivano dall’idrogenazione di alcuni grassi vegetali. La conclusione però in questo caso è di segno opposto: l’associazione tra malattie cardiovascolari e acidi grassi trans industriali esiste, anche se in alcuni casi permangono dubbi sulla sua entità.

Il punto è ora quello di avere a disposizione studi fatti meglio, più chiari nell’impostazione e negli obiettivi, per giungere ad avere informazioni finalmente corrette.

Ma è anche un altro, più importante dal punto di vista del consumatore: quello di avere la possibilità di capire di che tipo è l’acido grasso trans contenuto in un certo alimento, cioè un’indicazione chiara sull’etichetta. «Finora in Canada e negli Stati Uniti non c’è alcuna distinzione a livello di etichetta, scrive Proctor, e gli acidi grassi trans di derivazione animale sono inclusi nel conteggio totale dei grassi, per scoraggiarne il consumo; il risultato è fuorviante. In alcuni paesi europei, invece, il conteggio esclude quel tipo di grasso, fornendo così un’informazione più corretta. In alternativa, si può iniziare a pensare di distinguere tra i due tipi sulla stessa etichetta».

Per continuare a lavorare su questo argomento ed elaborare proposte alternative anche sulle etichette insieme a ricercatori, rappresentanti delle istituzioni, delle aziende e dei consumatori, Proctor ha appena ricevuto un finanziamento di un milione di dollari.

 

Agnese Codignola

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