Sostanze chimiche organiche derivate dal petrolio, gli ftalati sono impiegati in diversi settori per migliorare la flessibilità e rendere ‘plastici’ alcuni materiali (come il Pvc) usati per realizzare una serie di prodotti industriali e di consumo. Per anni sono stati oggetto di studio, soprattutto a causa delle eventuali conseguenze sulla salute umana dovute alla contaminazione di suoli e mangimi animali. Attraverso queste fonti di esposizione, infatti, tali composti possono trasferirsi alla carne e al latte, ma anche ai grassi vegetali, entrando in circolo e agendo come interferenti endocrini e causando quindi disturbi al sistema riproduttivo, malattie metaboliche come diabete e obesità, ma anche asma, disturbi neurologici, cognitivi, comportamentali e motori. Nel tempo la gamma di cibi a cui guardare con sospetto si è ampliata, a causa del crescente utilizzo degli ftalati nella produzione di involucri e contenitori destinati al contatto con gli alimenti, utilizzati tanto nel confezionamento dei cibi industriali quanto nell’ambito della ristorazione da asporto.

Anche i fast food sono finiti sotto la lente d’ingrandimento, soprattutto da quando uno studio finanziato dall’Istituto nazionale statunitense di Scienze della salute ambientale e condotto dalla George Washington University ha dimostrato che chi mangia spesso fuori casa (soprattutto chi si rivolge alle grandi catene della ristorazione veloce) è maggiormente esposto agli ftalati. I ricercatori hanno sottoposto 8.877 persone dapprima a un questionario in cui veniva richiesto di indicare dove avessero mangiato nelle 24 ore precedenti e poi a un test delle urine. Dai risultati, pubblicati nel 2016 sulla rivista Environmental Health Perspectives, è emerso che le persone che avevano consumato consumato junk food presentavano nelle urine una concentrazione mediamente superiore del 35% di ftalati, in particolare di dietilftalato o Dehp (+23,8%) e diisononilftalato o Dinp (+40%).

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Le sostanze chimiche sono state trovate in hamburger, cheeseburger, bocconcini e burrito di pollo serviti dalle catene statunitensi di fast food

Un altro studio, condotto in Texas, ha invece quantificato le concentrazioni di plastificanti chimici presenti nel cibo dei fast food. I ricercatori hanno verificato la presenza di 11 sostanze chimiche in 64 campioni di hamburger, patatine fritte, bocconcini di pollo, burrito di pollo e pizza al formaggio serviti dalle sei più importanti catene statunitensi di ‘ristorazione veloce’ (McDonald’s, Burger King, Pizza Hut, Domino’s, Taco Bell e Chipotle). Dai risultati, pubblicati nell’ottobre 2021 sul Journal of Exposure Science & Environmental Epidemiology, è emerso che tutti gli alimenti esaminati contenevano uno o più ftalati, come il DnBP, presente in più dell’80% dei campioni e collegato a un aumentato rischio di asma, e il Dehp, riscontrato nel 70% dei cibi e ritenuto responsabile di una maggiore incidenza di problemi riproduttivi.

Oltre agli ftalati, questo studio è stato il primo a rilevare anche la presenza, in oltre l’86% dei campioni, di tracce di altri plastificanti chimici alternativi (come il diottiltereftalato o Deht), i cui potenziali effetti sulla salute e sull’ambiente non sono ancora stati accertati. E, sebbene risalire alle fonti contaminanti non facesse parte dello studio, i ricercatori hanno ipotizzato di poterle identificare lungo tutta la filiera di questo format di ristorazione: dagli imballaggi delle materie prime ai macchinari di elaborazione come tubi e trasportatori industriali, fino ai guanti utilizzati per maneggiare le pietanze e le confezioni di cartoncino in cui sono servite. Nello specifico, gli autori hanno individuato livelli più alti di ftalati nei piatti a base di grano e nella carne, mentre i burritos al pollo e i cheeseburger sono stati segnalati per l’elevata concentrazione di Deht. Patatine fritte, pizza e formaggi, infine, hanno presentato i minori livelli di contaminanti.

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I rischi di una massiccia esposizione a queste sostanze riguardano soprattutto bambini e adolescenti, principali frequentatori dei fast food

Per valutare definitivamente quali sono i collegamenti tra la presenza di ftalati nel cibo e i problemi per la salute occorreranno anni di studi, ma i risultati preliminari hanno allarmato un gruppo di scienziati e professionisti della salute statunitensi coinvolti nel progetto Tendr (Targeting Environmental Neurodevelopmental Risks), che sottolineano i rischi della massiccia esposizione a queste sostanze tossiche soprattutto per i soggetti vulnerabili come bambini e adolescenti. Questi infatti, oltre a essere i più assidui frequentatori dei locali che servono cibi ultratrasformati, sono anche i maggiori consumatori domestici di cibi precotti e confezionati, da cui traggono più di un terzo delle calorie giornaliere. Ciò spiega perché hanno fino al 55% in più di ftalati nel corpo rispetto ad altre fasce della popolazione. La situazione negli Usa è resa particolarmente preoccupante dal fatto che la Food and Drug Administration (Fda), che regola la sicurezza degli alimenti, non ha previsto soglie legali che limitino le concentrazioni di ftalati e plastificanti chimici alternativi nei cibi e nei materiali destinati al contatto con essi, ma neppure delle apparecchiature per la loro lavorazione.

In Europa, invece, vige un regolamento più rigoroso sull’uso di ftalati e simili nei prodotti in generale, con un’attenzione particolare al loro uso nei materiali destinati al contatto con gli alimenti. Già dal 2005 l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) aveva previsto precisi limiti di legge per quanto riguarda il livello di esposizione alimentare quotidiana considerata tollerabile per un individuo. Nel 2019 ha riconsiderato il livello di rischio per cinque ortoftatlati autorizzati per il contatto con i cibi, stabilendo un dosaggio massimo giornaliero (50 µg per kg di peso corporeo per Dbp, Bbp, Dehp e Dinp e di 150 µg/kg per il Didp). I bambini, in particolare, sono oggetto di maggiori tutele, tanto che non è consentita la messa in commercio di prodotti destinati a loro che abbiano una concentrazione di Dinp e Didp superiore allo 0,1%.

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Il miglior modo per limitare l’esposizione agli ftalati e ad altri plastificanti è privilegiare il consumo di frutta e verdura fresche e alimenti integrali

Grazie a queste misure, l’esposizione agli ftalati per i consumatori europei nel 2019 risultava in media di 7 µg/kg di peso corporeo, arrivando fino a un massimo di 12 µg/kg per i maggiori consumatori di alimenti confezionati: rispettivamente quattro e sette volte inferiore al livello di sicurezza. Per il Didp, addirittura, l’esposizione alimentare per i forti consumatori è risultata 1.500 volte al di sotto della soglia di rischio. In ogni caso, il miglior modo per limitare l’esposizione agli ftalati e ad altri agenti plastificanti potenzialmente dannosi è privilegiare il consumo di frutta e verdura fresche e alimenti integrali, riducendo i prodotti da fast food. Ovviamente i benefici per la salute vanno ben oltre il contenimento dei rischi connessi all’intossicazione, estendendosi alla prevenzione di diverse patologie cardiache, metaboliche, neurodegenerative e tumorali.

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