I fitosanitari sono uno dei temi cui i cittadini italiani prestano più attenzione anche perché li “temono”. Non a caso, l’Eurobarometro 2010 li riporta in cima alla lista dei nostri incubi alimentari: l’85% di italiani, ben oltre la media europea, si dichiara preoccupato in materia.
In questi ultimi anni è possibile fortunatamente contare su una legislazione molto restrittiva in Europa, in particolare dopo l’adozione della Direttiva 2009/128 sull’uso sostenibile dei fitosanitari che ha dimezzato i principi attivi utilizzabili. Inoltre, grazie all’EFSA, è in vigore una valutazione del rischio molto cautelativa che è in grado di predisporre Limiti Massimi di Residuo (LMR) sicuri, in linea con le esigenze di una protezione elevata della salute.
Di questi temi abbiamo parlato con Federica Demaria, ricercatrice presso l’Università della Calabria e Visiting Research Fellow a Montpellier, che si è interessata dei risvolti commerciali di diversi standard di sicurezza alimentare. In particolare, Federica Demaria ha investigato come il commercio tra paesi con diversi Limiti Massimi di Residuo nei pesticidi possa venire condizionato dall’assenza di uniformità.
La ricercatrice ha scelto due prodotti, le mele e le pere (frutti che per caratteristiche agronomiche richiedono un numero elevato di principi attivi), come oggetti del suo studio Comparing apples with pears. How differences in pesticide residues regulations impact trade?, pubblicato su Food Policy con il titolo “Pesticides residues and trade, the apple of discord?”.
Abbiamo colto l’occasione per porgere alcune domande alla ricercatrice.
Quali aree geografiche nel mondo sembrano avere i LMR più cautelativi per la salute pubblica?
«In tema di limiti di massimo residuo di pesticidi e di contaminanti a livello internazionale non esiste una regola a cui tutti i paesi possano e/o debbano attenersi. Ogni stato mantiente “la propria sovranità” nel fissare i LMR; alcuni stati e la UE hanno scelto di adottare norme molto severe, prevedendo valori decisamente più bassi rispetto a quelli previsti dal Codex: inoltre per alcune sostanze particolarmente nocive o per le quali non esistono dati tossicologici, il limite fissato risulta pari allo zero.
Stati come l’Argentina, il Brasile, il Cile, la Corea, la Nuova Zelanda e la Russia non sono provvisti di un elenco dettagliato, e il loro maggiore riferimento è il Codex Alimaentarius, a differenza di paesi come il Giappone, l’UE e gli USA in cui la lista delle sostanze consentite è puntuale e dettagliata. Non stupisce, al riguardo, che si tratti di paesi con una particolare “vocazione” al rispetto e alla salvaguardia della salute dei propri cittadini.
Dunque gli standard differiscono da paese a paese, senza incorrere in sanzioni e senza, al contempo, doversi assumere la responsabilità degli eventuali rischi e dell’incerto danno che l’uso, o l’abuso, di certe sostanze può arrecare all’uomo e all’ambiente. Qualcuno potrebbe obiettare che esiste il Codex Alimentarius: tuttavia esso non ha il carattere dell’obbligatorietà e si limita a disciplinare solo 127 sostanze a fronte delle 800 trovate spaziando tra i regolamenti dei differenti stati. L’assenza di coordinamento internazionale produce una mappa che, come specificato in precedenza, è eterogenea. Ogni nazione emana norme senza apparentemente porsi il problema di incorrere in sanzioni e senza al contempo, assumersi la responsabilità di eventuali rischi e dell’incerto danno che l’uso di certe sostanze può arrecare all’ambiente.»
Che cosa comporta tutto ciò a livello di commercio internazionale?
«I LMR possono considerarsi alla stregua di una barriera al commercio entro le cosiddette Misure Non Tariffarie (MNT). Rientrano in tale categoria, ad esempio, le quote, i contigentamenti, le restrizioni volontarie alle esportazioni, i controlli di qualità e di salubrità alimentare. Pertanto possono considerarsi MNT anche quelle discipline che limitano le importazioni di beni concorrenti con quelli nazionali, giustificate da ragioni di tutela e protezione del consumatore.
Proprio in tema di difesa dei consumatori nel 1994 viene siglato in sede GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) l’accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS), disciplinante l’utilizzo degli strumenti volti a proteggere la salute umana e gli aspetti sanitari relativi agli animali e alle piante. L’obiettivo dell’accordo è quello di assicurare che gli strumenti siano definiti e utilizzati sulla base di principi scientifici e in modo non arbitrario o ingiustificato.
L’imposizione, dunque, di uno standard rigido e severo, è sinonimo di garanzia, quindi di beneficio o di vantaggio, nel senso che la maggiore severità garantisce – o dovrebbe garantire – la presenza sul mercato di prodotti che possono considerarsi “sicuri”. Ma adempiere a tali regole comporta, naturalmente, dei costi per il paese che intende esportare un determinato bene in un dato mercato. Il paese esportatore, infatti, deve recepire la norma del paese importatore e adeguarsi ad essa. La mancanza di conformità comporta il “respingimento alle frontiere” dei prodotti non “sicuri” o non “salubri”».
Che cosa accade con i concorrenti che producono con standard produttivi “più vaghi”?
«La risposta non è immediata nè di facile intuizione. Dipende dal prodotto e da quanto poco cautelativo sia lo standard. Può accadere, per esempio, che un paese abbia una limitata lista di sostanze, ma al contempo riesca ad adattarsi in breve alla regolamentazione predisposta dal Paese importatore, superando in tal modo l’ostacolo.
Per essere concreti, potremmo menzionare la Cina, paese dotato di una certa flessibilità di adattamento in termini sia di produzione che di recepimento delle regole. Queste caratteristiche le hanno permesso e le permettono di essere uno dei primi esportatori di mele e pere. La dinamicità di questo attore commerciale gli consente di predisporre la produzione in funzione dei LMR previsti dal paese verso cui intende esportare».
C’è un effetto di omologazione dei requisiti produttivi in atto o il libero commercio e aspetti di prezzo prevalgono?
«Un produttore che si confronta con due differenti tipi di standard, vale a dire massima severità e assoluta tolleranza, preferirà recepire il regolamento più severo (minima tolleranza) perché gli consentirà l’accesso a qualsiasi tipo di mercato.
In generale possiamo affermare che le norme cui un produttore deve attenersi sono due:
1) le proprie, cioè la legislazione interna;
2) la legislazione del paese importatore, cioè la legislazione esterna.
Non bisogna tuttavia dimenticare che l’uso delle sostanze impiegate in agricoltura, nei differenti paesi,è legato a diversi fattori, come ad esempio la struttura istituzionale e la legislazione nazionale dettata in tema di alimentazione, le condizioni climatiche locali, il reddito (i paesi più ricchi sono quelli che riescono a superari i divari, a incentivare le tecniche produttive e a proporsi immediatamente sul mercato in maniera diversa), le tradizioni di consumo (le diete, le preferenze dei consumatori e il rischio definito “accettabile” del livello di tolleranza), i problemi di raccolta, trasformazione, conservazione e stoccaggio dei prodotti.
A mio avviso, è possibile parlare di un effetto di uniformità (indiretta) e di un effetto reputazione. Del primo ne abbiamo già discusso, mentre il secondo dipende esclusivamente dalla percezione del consumatore e dalla fiducia-consapevolezza da parte dello stesso che tutti i prodotti venduti sul mercato rispettino o meno gli standard imposti dal suo paese».
Riccardo Rossi
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