«I consumatori ambientalisti quando si parla di olio di palma sono abituati a concentrarsi su una singola questione e non si rendono conto che intorno a questa materia prima c’è un’industria importante per i paesi asiatici. In altre parole una pressione per arrivare velocemente all’approvvigionamento esclusivo di olio di palma sostenibile avrebbe un impatto pericoloso per queste economie. Anche i produttori alimentari, che tendono a focalizzare l’approvvigionamento di olio di palma responsabile, dovrebbero allargare il proprio sguardo per capire quali saranno i tempi necessari». È quanto ha affermato, come riferisce Food Manufacture, Fiona Wheatley, responsabile dello sviluppo sostenibile della catena Marks & Spencer, durante una tavola rotonda della Roundtable of Sustainable Palm Oil (RSPO), un sistema di certificazione dell’olio di palma sostenibile, oggetto di molte critiche per il lassismo.
La posizione della rappresentante di Marks & Spencer, che ha 798 grandi magazzini in Gran Bretagna e 455 in altri 54 paesi, con il 55% del fatturato proveniente dal settore alimentare, è stata appoggiata dal ministro del commercio dell’Indonesia, che insieme alla Malesia produce l’85% dell’olio di palma a livello mondiale. Per far posto alle coltivazioni industriali di palme, nel sud-est asiatico si procede da anni a una massiccia distruzione di foreste pluviali tropicali e di torbiere, ma il ministro indonesiano, Bayu Krisnamurthi, sostiene che «stiamo usando le nostre risorse naturali per fare qualcosa di naturale e redditizio. L’Occidente lo ha fatto 100-200 anni fa, noi siamo semplicemente arrivati in ritardo».
Sul Guardian, la responsabile foreste di Greenpeace per il sud-est asiatico scrive che se la RSPO non rafforzerà le proprie norme le foreste dell’Indonesia continueranno a bruciare ed è venuto il momento che i produttori dell’olio di palma e i loro clienti agiscano concretamente e non solo con operazioni di greenwashing, cioè di ripulitura verde della propria immagine.
Beniamino Bonardi
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