Dopo più di un secolo di successi inarrestabili e una diffusione capillare negli alimenti industriali, gli edulcoranti potrebbero andare incontro a un lento declino, via via che crescono i sospetti di effetti negativi per la salute. Dubbi che potrebbero essere presto messi nero su bianco in un documento dell’Oms, la cui bozza è stata resa nota a luglio e dovrebbe essere varata, nella sua forma definitiva, nell’aprile del 2023. Il documento, dopo un attento e scrupoloso esame di centinaia di studi di qualità statistica superiore pubblicati negli ultimi anni, afferma, senza mezzi termini, che i dolcificanti fanno aumentare (e non diminuire, come le aziende hanno sempre sostenuto) il rischio di diabete di tipo 2 e di malattie cardiovascolari, e non fanno perdere peso ma, quando si eccede, fanno ingrassare, se valutati su intervalli di tempo medio-lunghi, superiori ai tre mesi. Lo stesso vale per l’effetto protettivo nei confronti della carie: non solo non sarebbe del tutto dimostrato, ma ci sarebbero sospetti di un aumento del rischio con i dolcificanti. Più tranquillizzante sembra invece il risultato delle indagini sul possibile effetto cancerogeno, negli anni evocato più volte soprattutto per alcuni dei dolcificanti, ma mai dimostrato con certezza. Se esistesse, sarebbe trascurabile perché associato a consumi enormi, che non rientrano nelle normali abitudini.
I dolcificanti ormai sono diffusissimi: nel 2019, per esempio, il 60% delle bevande di Coca-Cola e l’83% di quelle di Pepsi erano senza zuccheri, mentre uno studio effettuato a Hong Kong li aveva trovati nei prodotti da forno, nei condimenti per le insalate e in vari cibi salati. In un articolo che fa il punto della situazione, il quotidiano britannico The Guardian ricostruisce anche la storia, ricca di notizie poco note al pubblico, ma che fanno capire come fin dal principio, sui sostituti del saccarosio ci siano stati condizionamenti commerciali spesso opachi, e talvolta pericolosi. A cominciare dalla saccarina, la prima sostanza dolcificante introdotta in commercio, scoperta per caso dal chimico Constantin Fahlberg della Johns Hopkins University nel 1879. Lanciata nel 1893 dallo stesso Fahlberg alla Fiera internazionale di Chicago, la sostanza prese il nome appunto di saccarina, una sorta di diminutivo di saccarosio, e fu pubblicizzata come ‘spezia sicura’, 500 volte più dolce dello zucchero, senza alcun accenno alla sua provenienza dai derivati del petrolio. Il suo percorso risulta però travagliato dall’inizio. Nel 1908 la Food and drug administration americana (Fda)decise di toglierla dal mercato, ma il presidente Theodore Roosevelt, cui era stata consigliata per combattere il suo diabete, si oppose. La Fda ci riprovò nel 1977, dopo che erano emersi sospetti di cancerogenicità per la vescica nei modelli animali, ma di nuovo non riuscì. Una sorte non meno travagliata tocca al ciclammato, introdotto a partire dagli anni Trenta e popolarissimo negli anni Cinquanta: fu vietato nel 1969, anche in quel caso per sospetti di cancerogenicità per la vescica.
Il successivo fu l’aspartame, il cui successo planetario – nel 2005 era presente in oltre 6mila prodotti – si deve al fatto che fu il primo a poter essere utilizzato nelle bevande. Ma gli studi dell’Istituto Ramazzini di Bologna, effettuati tra il 2006 e il 2010 portarono a una richiesta di ritiro dal commercio. La richiesta venne respinta dall’Efsa, perché la sostanza era ritenuta sicura per ogni fascia di età, comprese le donne incinte e i bambini, e che per correre qualche rischio si sarebbero dovute consumare come minimo da 12 a 36 lattine di bibite dolcificate al giorno per lunghi periodi. Il responso è sempre stato controverso, e lo è diventato ancora di più dopo che un’approfondita revisione ha mostrato un chiaro legame tra l’esito positivo di moltissimi studi e i rapporti dei relativi autori con le aziende produttrici di dolcificanti. Legami che – questo il sospetto – potrebbero essersi riproposti anche in alcune agenzie pubbliche, influenzandone i responsi.
Nel frattempo sono stati approvati altri dolcificanti, ma i dubbi restano, e vengono periodicamente riproposti da singoli studi che ne mettono in luce aspetti problematici. Il motivo lo chiarisce una delle ricerche più importanti degli ultimi tempi, che scardina gli argomenti a favore dei dolcificanti, perché dimostra in modo convincente come, contrariamente a quanto detto per decenni, queste sostanze abbiano effetti misurabili sul metabolismo. E questo spiega i possibili effetti negativi. In particolare la ricerca, che ha preso in considerazione gli edulcoranti aspartame, stevia, saccarina e sucralosio ed è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista Cell (ne abbiamo parlato in questo articolo), mostra come ci sia sempre un effetto sulla glicemia, anche se nel caso della stevia e dell’aspartame è di lieve entità, e come tutti modifichino il microbiota intestinale. A sostegno dei dati ci sono quelli condotti su grandi gruppi di popolazione, che, anche se non dimostrano un nesso di causa-effetto, indicano associazioni pericolose tra consumi e varie patologie, come fa uno studio dello scorso settembre condotto su 100mila francesi, incentrato sulle patologie cardiache.
Anche se qualche nutrizionista è più cauto su queste relazioni, ciò su cui sembrano tutti d’accordo è che queste sostanze non siano a costo zero per l’organismo e, con ogni probabilità, non raggiungono gli scopi per cui sono vendute. Ci vorrà comunque del tempo prima di giungere a una situazione più equilibrata, anche perché le potentissime lobby dei produttori, soprattutto quelli di bevande, che da anni adottano tecniche simili a quelle messe in campo dall’industria del tabacco (come abbiamo raccontato più volte, e come è stato documentato da diverse fonti), continuano nell’azione di pressione, per tenere vivo un mercato che vale 2,1 miliardi di dollari all’anno.
Resta poi da definire il settore più delicato: quello dei bambini, perché se in molti paesi è vietato usare i dolcificanti nei prodotti esplicitamente dedicati (in quanto considerati additivi), la realtà è che i piccoli mangiano e bevono ciò che è presente in casa, e se i familiari sono consumatori abituali di prodotti con edulcoranti, ci potrebbero essere rischi ancora in gran parte da valutare. Non è un caso se Colombia e Messico, paesi con un gravissimo problema di obesità infantile, hanno varato l’obbligo di inserire sulle etichette delle bevande dolcificate un warning specifico, un ottagono nero con la scritta ‘contiene dolcificanti, non adatto ai bambini’. Ciò dovrebbe evitare che i più piccoli sviluppino l’abitudine al gusto dolce, difficile da modificare, ma che è all’origine della maggior dei problemi delle età successive.
Anche se i colossi delle bevande analcoliche stanno cercando di superare gli edulcoranti proponendo acque aromatizzate, il consiglio di tutti i nutrizionisti non cambia, soprattutto per le bibite: è meglio abituarsi o ri-abituarsi all’acqua e relegare il consumo del resto a occasioni sporadiche. Anche perché, come visto, i dolcificanti sono ovunque e vengono comunque assunti.
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Giornalista scientifica