Plastica nei mangimi: sconosciute le conseguenze per la salute di animali e persone. Ma presenza di piccole quantità è tollerata da quasi tutti i Paesi
Plastica nei mangimi: sconosciute le conseguenze per la salute di animali e persone. Ma presenza di piccole quantità è tollerata da quasi tutti i Paesi
Agnese Codignola 2 Gennaio 2019Andrew Rock ha una piccola fattoria nella quale alleva i maiali nel Lincolnshire, in Gran Bretagna. Mesi fa, dopo aver notato un po’ per caso alcuni frammenti di plastica nel mangime dei suoi animali, ha iniziato a controllare i vari lotti. Quindi, continuando a rinvenirne pezzettini, ha effettuato test a campione ogni settimana con un mestolo da un chilo, con lo stesso risultato ogni volta: moltissimi pellet erano contaminati. A quel punto ha chiamato il Guardian e ha raccontato tutta la sua storia, spiegando come i produttori da lui contattati abbiano risposto che la plastica rientrava nei limiti legali e non c’era nulla da preoccuparsi.
Ma che cosa ci fa la plastica nei mangimi per maiali? Rock in un primo tempo ha pensato a residui di guanti usati dagli addetti per la lavorazione, ma poi ha capito che una tale quantità non poteva essere dovuta solo a contaminazioni accidentali: doveva esserci qualche altra fonte.
In effetti, l’origine è chiara: il cibo buttato, o comunque scartato, che viene riciclato per preparare questi mangimi, dal pane ai biscotti, fino agli snack, alle verdure e a qualunque altra tipologia di prodotto compatibile con l’alimentazione animale. E solo per la Gran Bretagna si parla di 650 mila tonnellate all’anno. Il punto è che quando gli scarti provengono da alimenti confezionati, vengono quasi sempre lavorati direttamente con la pellicola di plastica che li avvolge. La quale si ritrova poi, ovviamente, nel prodotto finale.
Le normative europee non ammettono la presenza di plastica nei prodotti per uso alimentare animale, ma secondo il Guardian e alcuni esperti interpellati, quasi tutti i Paesi europei – e la Gran Bretagna in modo esplicito – ammettono uno 0,15% di residui nei mangimi, come se fosse un prezzo inevitabile da pagare per avere poi in cambio il riciclo di cibo che, altrimenti, andrebbe sprecato.
Secondo Heather Leslie, ecotossicologa specializzata in contaminazione da plastica dell’Università Vrije di Amsterdam, interpellata dal giornale, tutta la filiera dei mangimi è poco chiara, ed è molto difficile sapere che cosa, alla fine, arriva agli animali. Si sa, però, che la plastica, soprattutto la microplastica, è insidiosa, perché dall’intestino può passare nel sangue – questo è noto da decenni e lo si è visto nei maiali, nei cani, nei ratti e nei polli – e da lì si va a depositare nell’organismo, da dove può accumularsi e rilasciare sostanze chimiche come il BPA, fino a finire in organi e tessuti dell’animale che sono cibo per gli uomini.
Anche se tanto gli animali quanto gli uomini sono ormai circondati dalla plastica (ne abbiamo già prodotti 8 miliardi di tonnellate, ed entro il 2050 saranno 25), e anche se per il momento l’EFSA non ritiene che vi siano pericoli (o, per meglio dire, afferma che non vi sono prove, perché mancano i dati), l’ingestione anche di piccole quantità potrebbe essere dannosa. Occorrono studi approfonditi, ha concluso Leslie, e in attesa di dati certi è necessario che la UE e gli altri organi di controllo pongano limiti pari a zero e soprattutto li facciano rispettare.
I limiti non devono però influenzare il riciclo degli alimenti, grazie al quale in Europa sono ormai destinati a un secondo utilizzo 3,5 milioni di tonnellate di cibo ogni anno. In generale, secondo la FAO circa un terzo del cibo prodotto per l’alimentazione umana si perde nel percorso dalla fattoria alla tavola, e questi alimenti buttati assorbono circa un quarto di tutta l’acqua usata per la produzione alimentare, consumano un territorio vasto come la Cina e sono responsabili dell’8% dei gas serra. Continuare a favorire il riutilizzo è quindi una pratica assolutamente indispensabile. Ma forse non a qualunque condizione.
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Giornalista scientifica
Della serie residui zero impensabili se non su Marte (ancora per poco tempo), quelli che si vedono nella foto non sono residui ma una quota significativa degli ingredienti.
E’ ora di rivedere queste ampie tolleranze, che tengono conto solamente delle esigenze produttive e non certamente dello scopo per cui sono formulate le ricette e cioè cibo per animali e purtroppo anche per gli esseri umani.
Scienza e tecnologia devono darsi una regolata verso esigenze più vitali e sostenibili per l’essere umano ed il pianeta in cui viviamo, altrimenti rimane solo l’autodistruzione scientificamente programmata.