sacchetti buste bioegradabili esperimento università plymouth plasticaLe plastiche biodegradabili e compostabili che stanno lentamente rimpiazzando quelle derivate dal petrolio (almeno nei Paesi occidentali) forse non sono soggette a decomposizione così rapida come si vorrebbe: tutto dipende dalle condizioni ambientali nelle quali esse “vivono”, o meglio “sopravvivono”. Lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell’Università di Plymouth, in Gran Bretagna, che ha sottoposto diversi tipi di sacchetti di plastica tra i più utilizzati – biodegradabili, oxo-biodegradabili (cioè sensibili all’ossigeno atmosferico), compostabili e quelli tradizionali in polietilene ad alta densità – a diversi trattamenti, controllando periodicamente in che stato erano, definendo specifici parametri per la disintegrazione e ottenendo così molti dati, spesso non scontati.

Come pubblicato su Environmental Science and Technology, infatti, la plastica compostabile (di cui sono fatti in Italia i sacchetti per l’ortofrutta, per esempio) immersa in mare sparisce entro tre mesi, ma le altre sono ancora in buono stato dopo tre anni, come ben si vede nel video che accompagna lo studio.

Inoltre la stessa busta compostabile, se sepolta nella terra, dopo 27 mesi, pur presentando qualche segno di deterioramento, è ancora in grado di sopportare pesi praticamente uguali a quelli che reggeva quando era intatta, così come lo sono le altre dopo tre anni. 

Per quanto riguarda l’esposizione all’aria, infine, tutti i tipi di plastica ne risentono: dopo nove mesi sono tutti ridotti a brandelli. Ma ciò che è interessante sono le conclusioni finali: nell’insieme, i dati raccolti dimostrano che nessun tipo di plastica si degrada del tutto in tutti i tipi di condizioni sperimentate entro tre anni e come se ciò non bastasse, non è chiaro se le plastiche biodegradabili o oxo-biodegradabili siano davvero migliori rispetto a quelle tradizionali per quanto riguarda la degradazione in ambiente marino.

Per evitare confusione va detto che la plastica compostabile usata in Europa per i sacchetti dell’ortofrutta, deve rispettare la norma EN 13432. Secondo la norma il sacchetto con i rifiuti organici all’interno, deve degradarsi in misura pari al 90% in frammenti inferiori ai 2 mm. La scomposizione  deve avvenire entro 12 settimane in un impianto di compostaggio (dove la temperatura di solito raggiunge i 55/60 °C). Se il sacchetto viene messo in un compostiera nel giardino di casa o sul balcone i tempi di degradazione sono molto più lunghi.

Questi dati lasciano diverse domande senza risposta, come hanno fatto notare gli autori. Innanzitutto, ci si chiede se questi tipi di plastica siano davvero adeguati come sostituti dei 100 miliardi di buste tradizionali che secondo l’Unione Europea sono prodotte ogni anno (dati del 2013), inquinando ogni possibile ambiente. Inoltre è necessario rendere l’opinione pubblica più consapevole di quanto non sia oggi: quando si legge la dicitura “biodegradabile” non sempre c’è un beneficio, soprattutto per l’ambiente marino e ciò significa – se ci fosse bisogno di ricordarlo ancora – che non si deve mai disperdere alcun tipo di plastica. E, soprattutto, significa che probabilmente è giunto il tempo di definire standard più severi e uniformi per i materiali degradabili, e di obbligare i produttori a indicare tempi e modi di smaltimento attesi anche per questi prodotti.

Immagini: Università di Plymouth

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Sandro kensan
1 Maggio 2019 21:36

Io come tutti usiamo come carry bag solo sacchetti compostabili, credo che in Italia al supermercato ti diano solo quelli sia per la frutta e sia per contenere la spesa quando ci siamo scordati le “borse”. Le carry bag in plastica molto spessa e duratura è assolutamente non biodegradabile, ma queste ultime sono riutilizzabili all’infinito.

I due tipi di borse citati dall’articolo, le oxo biodegradabili e le biodegradabili non credo vengano usate in Italia se non quando siano previste e lecite l’utilizzo di quelle in plastica. Quindi vanno nel secco.

silvia
silvia
2 Maggio 2019 11:30

Il problema è che molti sacchetti marchiati come compostabili in realtà non lo sono e si tratta di una frode.
Ma chi controlla i produttori che stampano il marchio senza aver seguito tutto l’iter di certificazione?
L’FSC che riguarda la filiera della carta da gestione responsabile rilascia un numero che è facilmente controllabile sul sito, chi rilascia il marchio compostabile non rilascia il numero.

fabrizio_caiofabricius
fabrizio_caiofabricius
6 Maggio 2019 11:55

Per responsabilizzarsi occorre conoscere (e ovviamente volerlo fare).
Meglio non usare nessuna busta in primis, ma la veramente compostabile di origine amido di mais (misconosciuto e forse boicottato brevetto tutto italiano) non è certo paragonabile alla oxo-biodegradabile che in Europa- e fino a poco tempo fa anche in Italia- si voleva equiparare.
Miliardi di buste illegali continuano comunque ad essere propinate da piccoli e medi esercizi senza che nessuno dica mezza parola…

Graziella
Graziella
13 Maggio 2019 07:24

In un mare di contraddizioni,,il consumatore si trova veramente spiazzato!Faccio la raccolta differenziata in maniera meticolosa e,direi ,pignola ma mi accorgo che le regole per farla non sempre sono chiare!