Il mensile Focus di novembre ha dedicato un dossier alle etichette alimentari. Dietro il sibillino titolo “Sai che cosa mangi?”c’è una rassegna di alcuni marchi presenti sui prodotti alimentari, con le relative descrizioni. Purtroppo si è perso un pò l’equilibrio nel trattare le Indicazioni geografiche protette (Igp) che, a dispetto delle 78 registrazioni di cui l’Italia si fregia, vengono tacciate di ingannevolezza. È necessario chiarire alcuni punti.

Le Igp, insieme con le Dop (Denominazione d’origine protetta) e le STG (Specialità tradizionale garantita), sono gli strumenti che in Europa tutelano specialità agroalimentari legate alla tradizione. In vent’anni hanno dimostrato un’efficacia tale che il legislatore le ha riconfermate senza alcuna variazione sostanziale (dai regolamenti CEE n. 2081, 2082/92 ai regolamento CE n. 509, 510/06).

Queste denominazioni hanno permesso di proteggere le delizie della nostra tradizione da contraffazioni clamorose come quella del “Parmesan” (riconosciuto dalla Corte di giustizia europea nel febbraio 2008 di esclusivo dominio del Consorzio del Parmigiano reggiano Dop).

Il 25 marzo 2010 il Parlamento europeo – nel votare a larga maggioranza il documento “Politica di qualità dei prodotti agricoli:che strategia seguire?” – ha dichiarato che il sistema delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche protette contribuisce a favorire lo sviluppo delle zone rurali, proteggere il patrimonio culturale delle regioni, diversificare l’occupazione in ambito rurale.

Alla luce di queste considerazioni risulta un pò superficiale la critica di Focus al sistema delle Igp, definito ingannevole perchè  tutela la Bresaola della Valtellina, realizzata con la carne di «bovini sudamericani incrociati con lo zebù» anziché con le «mucche al pascolo su prati alpini». L’inganno però non c’è, perché  l’Indicazione geografica protetta garantisce il processo di lavorazione tradizionale tipico della zona. La materia prima dei prodotti Igp non deve essere per forza locale, mentre la lavorazione deve rispettare  gli scrupolosi parametri del disciplinare, trattandosi di una “certificazione di prodotto” che attesta la lavorazione tradizionale.  Il bucolico immaginario dei pascoli alpini stride con la realtà, visto che l’industria alimentare italiana trasforma il 70% circa della materia prima agricola nazionale (il resto è ortofrutta) e questo tuttavia non basta alla nostra filiera produttiva. Va altresi detto che  l’area delle Dop, Igp e Stg – che vede l’Italia primeggiare in UE con 213 registrazioni – tiene alto il nostro export.

Ecco un breve schema delle tre denominazioni 
DOP
“Denominazione di origine protetta”: un alimento prodotto e trasformato in un’area geografica delimitata, la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico, comprensivo dei fattori naturali ed umani (Reg. CE n. 510/06). I controlli sono affidati a enti di certificazione incaricati dal Ministero delle Politiche Agricole, e ai Consorzi di tutela. 

Es. Dop Parmigiano Reggiano: il latte proviene da una zona di allevamento delimitata (conferendo caratteristiche peculiari), i caseifici – localizzati nella stessa area – lavorano il prodotto e lo stagionano seguendo procedure tradizionali codificate nel Disciplinare di produzione.
 
IGP
“Indicazione geografica protetta”: un alimento originario di un’area geografica delimitata che ne caratterizza una determinata qualità, la reputazione o un’altra  caratteristica e le caratteristiche del prodotto (Reg. CE n. 510/06). La differenza con il Dop è che  per l’Igp  almeno una delle fasi di produzione, trasformazione, elaborazione (anziché tutte queste fasi, nel caso del Dop) deve avvenire nella zona geografica delimitata.

Es. Igp Speck dell’Alto Adige: il processo di lavorazione tradizionale tipico della zona è l’elemento qualificante, la materia prima ­pure soggetta a determinati requisiti di qualità – può provenire da altri territori

 

STG

“Specialità tradizionale garantita”: un alimento ottenuto a partire da materie prime tradizionali o caratterizzato da una composizione tradizionale o ottenuto con metodi di produzione tradizionali (Reg. CE n. 509/06).

Es. Pizza napoletana STG:  dev’essere preparata con pomodoro, mozzarella di bufala Dop o mozzarella Stg, olio extravergine d’oliva e origano, avere un diametro non superiore ai 35 cm, il bordo rialzato (cornicione) tra 1 e 2 cm e una consistenza insieme morbida, elastica e facilmente piegabile a libretto. L’ingrediente principale di una pizza napoletana STG­, anche se viene servita in un ristorante di Tokio, è comunque una mozzarella di bufala DOP o una mozzarella STG.
Dario Dongo

14 Novembre 2010