Vassoio di una mensa scolastica o lavorativa con mela, pane, verdura, pollo alla griglia

Milano RistorazioneMentre Milano Ristorazione finisce sui giornali per lo scandalo “parentopoli”  e mentre la nuova presidenza cerca consulenti di grido per proporre rilevanti modifiche nella composizione del menù, ilfattoalimentare vuole andare al nocciolo della questione e si chiede: perché, nonostante anni e anni di tentativi migliorativi, la sensazione diffusa è che nelle mense scolastiche milanesi si continui a mangiare male?

Il dato non è solo “sensoriale”, come sottolinea Gabriella Iacono, responsabile qualità e sicurezza alimentare di Gemeaz, società leader nel mercato italiano della ristorazione collettiva: “Il 44% dei pasti somministrati nelle scuole ogni giorno viene rifiutato. E questo, oltre ad essere un problema per l’utenza, che paga un servizio e quindi pretende giustamente che il proprio figlio consumi un pasto accettabile, diventa anche un problema etico ed educativo”.

E se il presidente Roberto Predolin fa sapere che dai sondaggi, “il gradimento è intorno al 67%, con solo un 20% di non gradimento e un 10-15% di genitori che non si esprimono”, una percentuale così consistente di rifiuto può solo in parte dipendere dalla scarsa educazione alimentare dei nostri bambini. Sicuramente è anche indice che la qualità del servizio nel suo complesso è insufficiente.

Continua Iacono: “I motivi di un servizio scadente possono essere tanti. Innanzi tutto c’è il problema del budget: il prezzo pagato dalle famiglie milanesi per la mensa (a seconda del reddito, dalla gratuità a circa 700 euro annui, n.d.r.) è inferiore a quello corrisposto in altre grandi città. Nell’ordine: Roma, Bologna, Torino, Venezia e Genova. E’ ovvio che se il budget è limitato la qualità delle materia prime non potrà essere eccellente”.

Certo, a sentre sentire i genitori membri delle Commissioni mensa, la quota fissata doveva corrispondere a ben altre prestazioni. Rosanna Campeggi, del coordinamento cittadino, sostiene che fino ad oggi non c’è stata trasparenza da parte della società: “Quando nel 2000 è stata municipalizzata Milano Ristorazione, è stato stipulato un contratto tra il Comune e la società, che opera in regime di monopolio. Il contratto definiva i livelli di prestazione da erogare tramite 14 allegati che entravano nello specifico sulla qualità derrate e sulla composizione dei menù. Dopo anni di richieste disattese solo nel 2010 (e di questo bisogna dare atto alla nuova amministrazione)  le Commissioni mense hanno potuto visionare gli allegati e ora possiamo dire che se quegli standard di qualità non sono stati rispettati”.

Le principali discrepanze? “Per esempio l’impegno a servire verdura fresca, quando invece è tutta surgelata, eccetto l’insalata. O la riduzione dei centri cottura: per scuola la primaria e la scondaria inferiore dovevano essere 46 e oggi sono 29, poco più della metà”. E se il presidente Roberto Predolin assicura che il nuovo centro cottura di via Sammartni, che assorbirà l’attività di 5 cucine chiuse, “è  all’avanguardia in Europa”, Gabriella Iacono fa notare: “Gestire direttamente 80 mila pasti non è uno scherzo. Certo, è possibile fare buona ristorazione anche su vasta scala e la grande cucina unica ha il vantaggio di garantire un maggiore controllo. D’altra parte è ovvio che su grandi numeri le tecnologie di preparazione, conservazione e scodellamento alterino la sensorialità”. Ecco perché in altri Comuni, come Roma, per esempio, il totale dei pasti è erogato da gestori diversi: “Con i suoi 80 mila pasti gestiti in monopolio, Milano Ristorazione è la prima società in Europa per dimensioni nel campo della ristorazione scolastica”, fa notare Iacono. Un caso più unico che raro, insomma.

Secondo Corrado Giannone, direttore di Conal, società di consulenza specializzata nella ristorazione collettiva, “le  società municipalizzate non sono vantaggiose perché l’assenza di concorrenza non fa certo ridurre i costi. Inoltre hanno strutture costose e complesse per il numero di pasti che erogano, che è relativamente piccolo: una società di ristorazione media può erogare fino a 700 mila pasti al giorno, molti più degli 80 mila di Milano, che pure ha uno dei volumi più alti nella ristorazione scolastica”. Elogio della concorrenza, dunque. Un discorso che, tanto per tornare alla questione qualità delle derrate, vale anche per i capitolati: “Se per ogni genere merceologico, per esempio i latticini, ci fossero più fornitori, si potrebbe innalzare la qualità”, suggerisce Iacono.

Certo che, finché i bandi di gara sono strutturati in modo che il prezzo più basso conta per il 70%, mentre le caratteristiche della materia fornita pesano solo per il 30% sul punteggio di assegnazione, la qualità non potrà che essere scadente, anche a fronte di un aumento del numero di fornitori. E nonostante Predolin assicuri che nei pochi mesi della sua gestione sono stati messi in campo numerosi sforzi per cambiare lo stato delle cose, fare un giretto sul sito di Milano Ristorazione può essere inquietante per una mamma. Negli appalti di fornitura aggiudicati nel 2010 leggiamo di latte assegnato valutando per il 90% il prezzo inferiore e per il 10% la qualità, di patate di quarta gamma, cioè già lavate e sbucciate, assegnate con il criterio 95%-5% e addirittura di riso assegnato “al ribasso”, cioè valutando esclusivamente l’offerta economica migliore.

Un sistema che non è assolutamente conforme alle “Linee guida per la ristorazione in Lombardia”, dove il rapporto qualità-prezzo era 70-30%, (fatta 70 la qualità): “E’ ovvio che con un bando al ribasso la qualità sarà scadente e saranno avvantaggiati i grandi fornitori multinazionali. Non stupiamoci, allora, se ci ritroviamo i piselli francesi, cotti in Belgo e surgelati chissà dove. Altro che filiera corta. Il riso è un prodotto padano: perché non si può pensare di rifornirsi direttamente da qualche consorzio della Bassa, magari biologico?”, osserva Campeggi.

Secondo Giannone, premiare sia la qualità che il prezzo, non ha senso quando si parla di derrate, al di là della proporzione: “La qualità deve essere definita a priori, non può essere variabile, perché non stiamo parlando di un servizio ma di un prodotto. Il parmigiano è a stagionatura 30 mesi o non lo è. Un nettare ha il 50% di frutta o non ce l’ha. Non ci sono vie di mezzo. La società di ristorazione deve fissare degli standard di qualità che desidera e poi fare la gara per ottenere il prezzo più vantaggioso che rispetti quei criteri. E’ un sistema più semplice e più preciso”.

La vera chiave dell’insuccesso, però, potrebbe non risiedere nella qualità delle materie prime ma stare dome meno ci si aspetta, ossia nell’ultima fase della catena ristorativa, come fa notare Gabriella Iacono: “La fase dello “scodellamento” è determinante. Se il personale che somministra i pasti non è qualificato può non essere in grado di gestire al meglio i contenitori termici. Basta chiuderli male perché il pasto arrivi freddo in tavola”. A quel punto poco importa se la pasta è biologica e il sugo cucinato ad arte: quel primo finirà molto probabilmente nella spazzatura. Senza contare il problema igienico: per legge un piatto caldo dovrebbe essere servito al di sopra dei 60 gradi e uno freddo sotto i 10.

Il guaio – prosegue Iacono – è che gli scodellatori provengono da cooperative di lavoro, a cui Milano Ristorazione appalta il servizio, e non da aziende di ristorazione”.  Anche alcuni episodi spiacevoli (leggi insetti o peli di animale riscontati nel piatto) si sarebbero potuti evitare: “Fatto salvo che insetti non ce ne dovrebbero essere, uno scodellatore esperto li avrebbe notati e almeno avrebbe sostituito quella porzione” , osserva Iacono. E sempre per rimanere all’ultima fase, quella del servizio, Iacono sottolinea anche l’importanza di usare stoviglie decenti (quelle in ceramica mantengono di più il calore e sono più gradite) e di un ambiente confortevole. Missione impossibile? No, basterebbe montare nei refettori semplici pannelli fonoassorbenti. Senza contare l’importanza del supporto dato dall’insegnante, il cui ruolo educativo non dovrebbe venire meno neanche a tavola, stimolando il bambino ad assaggiare anche piatti a cui non è abituato.

E qui tocchiamo un altro punto dolente. Secondo Roberto Predolin “bisogna che i bambini siano educati a casa a mangiare correttamente. Ma evidentemente così non è, basta guardare gli scarti di frutta e verdura”. Questo è vero, per Iacono, che sottolinea anche come tanti programmi di educazione scolastica negli anni scorsi si siano rivelati fallimentari perché non coinvolgevano abbastanza i genitori. Però i gusti del bambino andrebbero, almeno minimamente, assecondati: “I menù sono attualmente molto restrittivi – sottolinea -. Proponendo qualche possibilità di scelta, gli scarti diminuirebbero. Una proposta potrebbe essere quella del Self service, con la doppia scelta a rotazione su pasta, secondo o verdura in modo che la composizione settimanale del menù resti equilibrato”.

Stefania Cecchetti

Foto: Photos.com

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Emanuele
Emanuele
8 Febbraio 2011 22:28

"il prezzo pagato dalle famiglie milanesi per la mensa è inferiore a quello corrisposto in altre grandi città", magari è vero, ma a Milano il direttore generale si porta a casa 340.000 euro all’anno e una liquidazione di un milione di euro. I suoi 4 assistenti una media di 100.000 euro l’anno, gli 11 quadri 60.000 euro l’anno cadauno, il presidente del CDA 63.000 euro l’anno e 80.000 euro i 4 consiglieri. Fate le somme e verificate quanto questi incompetenti incidano sul bilancio aziendale e avrete la risposta alle domande del vostro articolo.