Good quality food in take away boxes with fresh vegetables

La nostra società è sempre più globalizzata e multiculturale anche per quanto riguarda le tradizioni gastronomiche e le abitudini alimentari. La mescolanza delle culture a tavola è un processo lungo che attraversa la storia, i continenti e la psicologia delle persone. Uno studio dell’Osservatorio dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) ha coinvolto 1.317 consumatori italiani, intervistati tramite un questionario online per indagare la relazione tra la neofobia alimentare (ovvero la diffidenza verso nuovi cibi), e l’atteggiamento verso altre culture e il consumo di cibo etnico. Già, perché spesso la diffidenza verso nuovi cibi si traduce in un atteggiamento di chiusura, se non di rifiuto degli altri. Gli esperti la chiamano “neofobia alimentare”, tuttavia la curiosità verso il cibo etnico ha indotto molte persone a sperimentare sapori e odori lontani dalla dieta mediterranea.

Qual è l’atteggiamento dei consumatori italiani verso i nuovi alimenti che arrivano sulle loro tavole? Come gli aspetti culturali e personali influenzano questo atteggiamento? Uno studio dell’Osservatorio dell’IZSVe (*) ha investigato la relazione tra la neofobia alimentare, l’atteggiamento di apertura verso le altre culture e il consumo di cibo etnico. La neofobia alimentare è una caratteristica degli animali onnivori, tra cui l’uomo. Oggi, tuttavia, si tende a non ricondurre questo tratto psicologico a un discorso evolutivo ma sono stati evidenziati diversi fattori che interagiscono con la neofobia correlati ad aspetti culturali, cognitivi e relativi alla socializzazione.

La neofobia alimentare è minore nelle grandi città e fra i più giovani. Lo studio evidenzia che il consumatore “neofobico” tende ad avere una minor apertura verso culture differenti e a mangiare meno cibo etnico. Rientrano maggiormente in questo profilo gli uomini con più di 55 anni, in pensione e con licenza elementare o media. Sono invece meno neofobici i giovani con un alto livello di istruzione e che risiedono nelle grandi città.

La ricerca ha coinvolto 1.317 consumatori italiani intervistati tramite un questionario online. È stato chiesto loro se avessero mai mangiato cibo etnico in Italia e la modalità del primo contatto (tramite amici, parenti, pubblicità online…). Le risposte sono state incrociate con i dati socio-demografici (genere, età, titolo di studio, area geografica di residenza). Dai risultati è emerso che il consumatore “neofobico” tende ad avere una minor apertura verso culture differenti e a mangiare meno cibo etnico, proveniente da un paese straniero con tradizioni gastronomiche e culturali diverse da quelle italiane.

cibo etnico
Il consumatore ‘neofobico’ tende ad avere minor apertura verso culture differenti e a mangiare meno cibo etnico

I meno neofobici, quindi più aperti alle diverse culture e convinti consumatori di cibo etnico, sono giovani adulti (maschi e femmine), con un alto livello di istruzione (laurea/post-laurea) e che risiedono abitualmente in grandi città. Insomma, il cibo etnico fa meno paura nelle metropoli e piace di più ai giovani, forse per la maggiore offerta commerciale e reperibilità sul mercato in certe realtà socio-economiche, dove anche i processi di integrazione sociale sono più avanzati.

Secondo i ricercatori è importante opporsi alla la neofobia perché una dieta che include il maggior numero possibile di alimenti diversi è essenziale per la salute, ed è maggiormente in grado di garantire una buona qualità nutrizionale. Questa e altre caratteristiche psicologiche dei consumatori riluttanti, devono essere tenuti in considerazione quando si impostano interventi di educazione alimentare mirati.

L’altro elemento da considerare è che il consumo di cibo etnico favorisce la socialità e la convivialità. La maggior parte delle persone che consumano etnico ha riferito di essere entrata in contatto con questa cucina grazie a parenti e amici. L’importanza sociale e conviviale che viene attribuita alle pratiche alimentari, che tradizionalmente caratterizza l’Italia, è riconoscibile anche nel rapporto dei consumatori italiani con il cibo etnico. Quindi, studiare le caratteristiche psicologiche e le attitudini dei consumatori verso questo cibo etnico aiuta a comprendere un fenomeno in costante crescita, nonché le sue implicazioni a livello sociale e nel mercato alimentare.

(*) Lo studio dell’Osservatorio IZSVe è stato pubblicato sulla rivista Foods e svolto nell’ambito di una ricerca più ampia mirata a indagare le caratteristiche dei consumatori di prodotti etnici nel contesto italiano, facente parte della Ricerca Corrente 17/12 “Ristorazione etnica e sicurezza alimentare: problematiche microbiologiche, reazioni avverse, frodi e percezione del rischio da parte del consumatore finale” finanziata dal ministero della Salute.

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Mauro
Mauro
19 Giugno 2020 10:23

Le persone più mature sono meno portate a sperimentare il cibo etnico?

Abbastanza ovvio, le persone mature hanno un bagaglio di esperienze consolidate che hanno ampliato nella loro vita introducendovi piccole variazioni progressive e solo quando necessario, dalla cucina di mamma in poi, attraverso le esperienze scolastiche, lavorative e di viaggio, e inoltre nel corso della loro vita hanno probabilmente avuto esperienze negative con molti dei sapori proposti, mentre i giovani partono a sperimentare quasi da zero.

Basta essere andati in vacanza nel nostro Sud (ma anche in alcune zone della Liguria) per essere stati invitati ad assaggiare frutti di mare o pesce crudi, e sono sapori che o piacciono o disgustano al primo impatto, e chi si è nauseato con i ricci di mare certamente rifuggirà con decisione dal sushi e qualunque altra proposta ittica cruda.

Se a questo aggiungiamo che qualche decennio fa i ristoranti etnici si erano guadagnati una pessima fama perché aperti da persone che nel loro paese di origine facevano tutt’altro e si erano reinventati ristoratori per necessità, servendo cibi abborracciati perché tanto nessuno sapeva come sarebbero dovuti essere, abbiamo un quadro più completo della situazione.

Un ventenne privo di esperienze pregiudizievoli, che si sente proporre di andare a vedere com’è il nuovo ristorante ceceno, iraniano, zairese, caldeggiato dagli amici e magari portato in palma di mano sui social o associato alle nuove mode nocarb, crudiste, vegane, fruttariane, accetterà bendisposto e curioso di sperimentare, e magari apprezzerà e farà altre esperienze simili.

Un adulto che in passato ha avuto modo di assaggiare una tristissima cucina russa andrà malvolentierei in locali riconducibili all’ex blocco sovietico, se ha sofferto un’intera cena di tutte portate che sapevano uniformemente solo di comino in un ristorante marocchino diffiderà di qualunque ristorante mediorientale, se ha assaggiato cibi variamente viscidi e repellenti in un locale “congolese” eviterà probabilmente qualunque cucina africana.

Personalmente sono passato attraverso tutte queste esperienze in passato e di conseguenza mi sento poco propenso a farne altre in un prossimo futuro, almeno in Italia: al contrario all’estero evito accuratamente ogni locale con claim gastronomici italioti ma scelgo appositamente i locali meno eleganti e internazionalizzati, e sperimento tutto ciò che offrono, talvolta con soddisfazione, altre con risultati diversamente memorabili.

Wanda
Wanda
Reply to  Mauro
5 Luglio 2020 13:14

Da…anziana, condivido con tutto quello che ha scritto. Chi ne ha provate tante è in grado di fare paragoni, cosa negata ai neofiti che sono animati solo dalla curiosità.
Poi bisogna avere consapevolezza che ogni cultura gastronomica è legata ai luoghi di produzione (per qualità del terreno, dell’acqua, del clima, delle risorse disponibili, ecc.) per cui quando si va all’estero è sempre opportuno preferire i piatti locali che, quando invece vengono “importati”, diventano tutt’altra cosa.
Inoltre ho girato a sufficienza per sapere che viviamo nel paese che ha il miglior cibo del mondo e non vedo il motivo per il quale sperimentare cibi a cui non siamo abituati e che forse non abbiamo nemmeno gli enzimi per digerirli.

Tonino Riccardi
Tonino Riccardi
20 Giugno 2020 16:52

Non esiste il cibo etnico. Esiste il buono e il cattivo in tutto il mondo. In Italia abbiamo la fortuna di avere più scelta. Il resto non conta niente.

Mauro
Mauro
Reply to  Tonino Riccardi
21 Giugno 2020 15:38

Eh, dimentichi le mode, anni fa conosceva il sushi giusto chi era stato in Giappone, poi di punto in bianco sono comparsi “ristoranti giapponesi” e “sushi bar” dovunque (quasi mai gestiti da giapponesi) e non passava sera senza sentirsi invitare a “provare il sushi che è tanto buono”.

Rispondere che il pesce crudo non mi interessava, e che il sushi in particolare era pesce crudo più riso colloso dentro ad alghe che sanno di copertone di camion portava a commenti indignati di provincialismo e chiusura mentale.

Almeno finché non gelavo tutti spiegando chi il sushi l’avevo provato a Kyoto negli anni ’70 e che dato che non mi era piacciuto là certamente non avrei ripetuto l’esperienza da “o’ sushi mio” di Cacace Caloggero.

marco
marco
5 Luglio 2020 14:21

Io non etichetterei con neologismi ghettizzanti chi ama la propria ricca cultura culinaria. L’Italia vanta una varietà infinita di cibi che stentano a farsi conoscere dai giovani italiani omologati da bigmac

Elena G. Monguzzi
Elena G. Monguzzi
7 Luglio 2020 10:56

Condivido tutte le opinioni di cui sopra. Aggiungerei però un’altra ossevazione, a beneficio e completamento di quanto scritto da Wanda: “bisogna avere consapevolezza che ogni cultura gastronomica è legata ai luoghi di produzione per qualità del terreno, dell’acqua, del clima, delle risorse disponibili, ecc.”; mi riferisco, cioè, alla sostenibilità ambientale e al rispetto delle popolazioni locali e porto un solo esempio: la quinoa. È una proteina molto importante per l’alimentazione delle popolazioni andine, le quali l’hanno sempre coltivata nel rispetto degli equilibri naturali tra stagionalità, allevamento, condizioni idrogeologiche, ecc. Il rischio (come è successo per l’olio di palma) è quello del danno a tali equilibri nel caso in cui la domanda (per moda), a fronte dell’attrattiva dell’aumento degli introiti, riducesse quelle quelle popolazioni (che comunque non beneficiano mai di una giusta redistribuzione degli introiti stessi) a infrangere il preesistente. Non dimentichiamo che quei popoli non dovrebbero venire depredati, ma aiutati e sostenuti ad aumentare la produttività accompagnandoli con studi sul campo e, soprattutto, con la remunerazione equa e nel rispetto totale delle loro abitudini, che, alla fine, corrisponde al rispetto per la viata, quindi anche di tutti.

Marco Colombo
Marco Colombo
9 Luglio 2020 10:11

Personalmente ritengo un insulto l’accostamento fatto tra titolo di studio e “neofobia”, termine che già di per sé è ripugnante. I gusti alimentari non sono e non saranno mai un fattore scolastico ma di esperienza come dicono anche i commenti prima del mio. Io ho viaggiato molto in passato, ho provato il cibo locale all’estero, ho avuto esperienze positive ma anche esperienze negative. Il Sushi, ad esempio, non mi piace e non lo mangerò mai ma non per questo allora devo essere ritenuto ignorante o “neofobo”, né tantomento intollerante o razzista nei confronti della cultura giapponese (che tra l’altro adoro). Se non mi piacciono tofu, soia, quinoa, seitan, insetti non vuol assolutamente dire che sono intollerante nei confronti delle culture di riferimento ma soltanto che certi cibi non mi piacciono o non mi attraggono.