piatto, forchetta, coltello e cucchiaio in plastica monouso bianca su ripiano color petrolio

Sono sempre di più le Università e gli istituti di ricerca che stanno contribuendo allo sviluppo di biopolimeri ottenuti da scarti agroalimentari che in questo modo possono diventare vere e proprie risorse (leggi qui la prima parte dell’articolo sulle bioplastiche). Quando ottenuta da fonti rinnovabili infatti, la bioplastica non entra in competizione con le filiere alimentari e presenta i vantaggi di essere biodegradabile, non utilizzare processi petrolchimici e di garantire le medesime proprietà termomeccaniche delle plastiche tradizionali.
Il pastazzo, un sottoprodotto ingombrante dei processi di trasformazione degli agrumi costituito da scorze, porzioni di polpa e semi può essere un’altra interessante risorsa. Secondo dati aggiornati, solo in Italia ogni anno se ne producono circa 1 milione di tonnellate, rappresentando un grosso problema per l’intera filiera agrumicola a causa dei suoi elevati costi di gestione per le industrie di succhi e per l’ambiente.

Utilizzando questo scarto agricolo e grazie alle nanotecnologie, due ricercatrici del Politecnico di Milano (POLIMI) sono riuscite a produrre un filato da cui si origina un tessuto, OrangeFiber, con proprietà simili a quelle dei tessuti tradizionali.
La prima parte della trasformazione degli scarti degli agrumi avviene in Sicilia e grazie al lavoro di brand building, comunicazione e marketing, Orange Fiber è oggi riconosciuto in tutto il mondo come tessuto sostenibile, innovativo e di alta qualità per la moda.
Il team di ricerca Smart Materials dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova sta sviluppando tecnologie per la realizzazione di un packaging in bioplastica prodotta con gli scarti di frutta e verdura. Il progetto di economia circolare permette di convertire gli invenduti dei mercati ortofrutticoli in plastica 100% biodegradabile. Il primo prodotto sperimentale è stato presentato (si tratta di un imballaggio in bioplastica che va a sostituire il tradizionale “alveolo” nelle cassette di frutta e verdura per preservare l’integrità del prodotto) ed è realizzato interamente a partire dallo scarto dei carciofi invenduti provenienti dal Mercato Ortofrutticolo di Genova, partner del progetto.
Trasformare le bucce di pomodoro in ecoplastica, è l’obbiettivo raggiunto da un gruppo di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR di Pozzuoli) con la collaborazione dell’Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri.

Dagli scarti degli agrumi si produce un filato da cui si origina un tessuto, OrangeFiber

Packtin, nato come spin-off dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è dedicata ad un progetto di economia circolare reimmettendo nel processo produttivo materia prima di recupero (prodotti di scarto dei processi industriali della filiera agroalimentare come bucce di arancia, mela, pomodoro, polpa di barbabietola). Da queste sono estratti biopolimeri per la realizzazione di pellicole, gel, packaging biodegradabili e commestibili. I prodotti ottenuti garantiscono una maggiore sicurezza e conservazione degli alimenti, oltre ad un incremento della loro shelf–life. Tra i prodotti più interessanti troviamo “Biopack”, una pellicola organica estensibile fino al 50% realizzata con fibre provenienti da diversi scarti alimentari e con proprietà attive.
Nuove idee e sviluppi arrivano quasi quotidianamente e tutte sembrano avere un denominatore comune: la disponibilità locale di materie prime, precondizione fondamentale per lo sviluppo di questo mercato, che diviene realmente sostenibile anche attraverso un sistema logistico accessibile.

Ma le novità più recenti sembrano interessare un prodotto di scarto correlato al frutto più consumato al mondo, la banana.
Ricercatori australiani dell’Università del New South Wales (UNSW) a Sydney hanno escogitato un metodo per trasformare i rifiuti agricoli dell’industria delle banane in bioplastica biodegradabile.
Secondo i ricercatori , l’attuale frutto del banano costituisce solo il 12% della pianta, con il resto scartato come rifiuto. Ciò rende la coltura un obiettivo allettante per usi alternativi, sia per ridurre gli sprechi sia per fornire una solida scorta di materie prime per la produzione industriale di bioplastiche.

bioplastiche
Packtin, nato come spin-off dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è dedicata ad un progetto di economia circolare

Ciò che rende l’attività di coltivazione delle banane particolarmente dispendiosa rispetto ad altre colture da frutto è il fatto che la pianta muore dopo ogni raccolto.
Ogni pianta di banane entra in produzione soltanto dopo 14 mesi, periodo nel quale l’albero forma anche due “polloni”, uno chiamato “figlia”, che darà frutti a distanza di 12 mesi dalla pianta principale e l’altro chiamato “nipote”, che darà frutto dopo due anni. Ogni ceppo produce un solo casco alla volta, perciò una volta raccolte le banane si procede al taglio del fusto, che viene lasciato in campo come fertilizzante organico.
Le idee non mancano e l’approccio che sta alla base è quello della vera economia circolare: non si butta nulla e tutto può divenire preziosa risorsa.

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gianni
gianni
20 Luglio 2020 13:35

Speriamo che qualcuno di questi progetti catturi l’interesse dei finanziatori e possa portare al più presto a produzioni quantitativamente rilevanti di prodotto e in questo campo possano essere messi in pensione gli idrocarburi.
Riguardo alla banana è vero che la “madre” non produce una seconda volta però le foglie e il fusto tagliati non sono buttati nel pattume ma stesi come pacciamatura e fertilizzazione dei polloni giovani , non vorrei che a qualcuno venisse in mente di vendere i resti e poi concimare chimicamente l’apparato radicale che ha bisogno di nutrimento, riparo termico e conservazione dell’umidità.