Le ricerche per migliorare la qualità e il contenuto del cibo destinato agli astronauti potrebbero aprire nuovi orizzonti all’industria alimentare. E’ questa  l’opinione di Michele Perchonok, ricercatrice e dirigente del settore della NASA che si occupa delle nuove  tecnologie  per gli alimenti da usare nelle missioni spaziali, riportata in un’intervista di Stephen Daniells per Food Navigator. 

L’esperta fa parte di un team che sta studiando nuovi alimenti validi sotto il profilo della qualità, quantità e varietà destinati agli astronauti che restano per mesi nelle navicelle spaziali senza la possibilità di rifornimenti.

Secondo l’analisi pubblicata sul Journal of Food Science, una missione su Marte richiederebbe per il viaggio una provvista di cibi preconfezionati simili a quelli attualmente usati sulla Stazione spaziale internazionale (ISS) e un “magazzino” sul Pianeta Rosso in attesa dell’equipaggio. Cibo che, all’arrivo degli astronauti, dovrebbe avere un’età compresa tra 3 e i 5 anni. Michele Perchonok ha spiegato che sulla ISS sono disponibili oggi circa 180 alimenti. Ma la varietà si riduce  nel giro di due anni  perché alcuni sono più graditi di altri.

L’esperta, membro anche dell’Institute of Food Technologists (IFT), ammette che la messa a punto di prodotto con una data di scadenza di 5 anni non interessa molto   l’industria alimentare, visto che i consumatori  non hanno bisogno di conservare il cibo per così a lungo.

Gli  studi sul prolugamento della durata proseguono e sono abbinati alla ricerca della qualità. «Migliorare gli alimenti attraverso la tecnologia (per esempio, trattandoli con l’alta pressione per uccidere i microbi) è un aspetto che  potrebbe creare nuove opportunità all’industria alimentare», tanto che sono già in corso incontri con rappresentanti del settore, in vista di possibili collaborazioni.

Gli scienziati della NASA dispongono già di tecniche che azzerano i problemi di conservazione legati ai batteri, ma bisogna considerare che per gli astronauti la “durata” del cibo è anche connessa al valore nutritivo e alla palatabilità.

Assicurare l’apporto di vitamine per un viaggio spaziale di oltre 5 anni è una sfida tecnologica molto complessa . Ci sono stati progressi sulle varie forme di “pasto spaziale”, dalle tortillas alle compresse multivitaminiche, che hanno già mostrato come la concentrazione di certe vitamine diminuisce molto nel lungo periodo.

Il cibo in cubetti o in pillole appartiene al passato. Nella scelta tra alimenti e integratori  in pillole – che nell’immaginario sono il “cibo da astronauti” per eccellenza – la dottoressa Perchonok opta per i primi: perché la loro “matrice” offre una protezione naturale verso la degradazione dei nutrienti. La vitamina C, per esempio, è protetta meglio da un ambiente acido, perciò è importante mettere a punto vettori ad hoc. Anche la microincapsulazione potrebbe essere utile per proteggere i nutrienti. Nel programma spaziale Gemini (il terzo con esseri umani effettuato tra il 1963 e il 1966) gli alimenti erano stati ridotti e disidratati per cui avevano la forma di dadi di carne, pane, frutta e avevano la  dimensione di morso. Ma la novità non ebbe molto successo perché la maggior parte dei cubetti tornò sulla terra senza essere stata toccata  (nel piatto degli astonauti  sono finiti anche il Parmigiano Reggiano e altri prodotti made in Italy n.d.r).

E allora: come si può rendere il cibo commestibile per cinque anni? In mancanza di frigorifero e freezer (ad eccezione dello Skylab, nessun veicolo spaziale è stato dotato di un simile elettrodomestico), gli scienziati della Nasa stanno pensando di posizionare un frigorifero  fuori dalla navicella.

La dottoressa Perchonok, che sta cercando di inventare  una sorta di freezer di pronto uso, sostiene che «Fa troppo freddo, e il packaging si deteriora». C’è un altro inconveniente da ocnsiderare,  la temperatura su Marte fluttua da un minimo di -153 °C e un massimo di  20° C e questo complica ulteriormente il problema.

Cercare di superare questi ostacoli rendendo il packaging più spesso o più resistente comporta ulteriori difficoltà, perché occorre più spazio per lo stoccaggio del cibo, aumenta il peso del carico e pone il problema di cosa fare della confezione dopo avere consumato il pasto.

L’attenzione quindi si sposta sul contenuto, e sulle potenzialità offerte da tecnologie, come le alte pressioni e la sterilizzazione con microonde. Col trattamento ad alta pressione gli alimenti vengono sottoposti a 6 mila atmosfere (con o senza calore) per uccidere i microbi. Questa tecnica può essere utilizzata anche per «modificare le caratteristiche del cibo e ottenere le qualità desiderate dai consumatori», ha osservato la dottoressa Perchonok sul Journal of Food Science.

La sterilizzazione con le microonde prevede la cottura di un alimento ad alte temperature  (129° C) per un breve periodo (10 minuti). In questo  modo si ottiene un netto  miglioramento rispetto alla tecnica attuale di termostabilizzazione, che prevede solo la cottura a 121° C molto più prolungata.

Come per tutte le tecnologie emergenti , anche in questo caso occorre approfondire la ricerca prima di iniziare le applicazioni su vasta scala, ma al momento i risultati appaiono promettenti.

La dottoressa Perchonok è convinta  che l’obiettivo di combinare qualità, durata e mantenimento delle sostanze nutritive sia raggiungibile. Ma cosa vedranno nel piatto gli astronauti quando si accingeranno a consumare alimenti vecchi di 5 anni?

Sebbene l’occhio voglia la sua parte, secondo la ricercatrice l’aspetto del cibo non dovrebbe essere una questione primaria quando si sta conquistando lo spazio e si mangia da un sacchetto. Ma  il problema comunque esiste, perché nessuno vuole addentare una carota marrone.

Mariateresa Truncellito

foto: Photos.com, Nasa (www.nasa.org, speceflight.nasa.gov)