olio di palma Palm Oil Plantation.

I cittadini della Liberia – nazione già tristemente nota per l’impiego dei soldati-bambino nella guerra fratricida degli anni ’80-’90 – stanno protestando contro la società malese Sime Darby che, dopo aver negoziato un accordo con il governo locale per sfruttare le loro terre, impone ai lavoratori condizioni di lavoro disumane. Il governo della Liberia e la Sime Darby company hanno ricevuto un ultimatum di 60 giorni dalla popolazione della Contea Grand Cape Mount per organizzare un incontro e discutere sul futuro del Paese.

Gli abitanti di 27 città e villaggi accusano la società malese di avere raso al suolo ed espropriato le loro terre, con grave impatto sull’ambiente e sulla potabilità dell’acqua. A gennaio si sono riuniti a Madina, nel Distretto di Garrula, per raccogliere testimonianze, e hanno deciso di chiedere loro governo informazioni sull’accordo stipulato con la Sime Darby.

«Vogliamo che i diritti della nostra comunità siano garantiti appieno, nell’accordo per la concessione dei territori alla Sime Darby, e che si riconosca un’equa ripartizione delle nostre risorse. La società dovrebbe offrire condizioni di lavoro accettabili, assumere personale qualificato, fornire opportunità di formazione e compensi sufficienti a sfamare le nostre famiglie», è la richiesta
della comunità.

Ma di cosa si occupa una società malese delle terre più fertili dell’Africa occidentale? Della produzione di olio di palma, il grasso vegetale più utilizzato al mondo, il più economico e versatile, dato che si presta a vari utilizzi, dall’alimentare alla cosmetica fino al bio-diesel. Indonesia e Malesia, i primi produttori del globo, non possono più permettersi di radere al suolo le loro foreste per coltivare la palma da olio perché i grandi acquirenti internazionali hanno imposto loro il rispetto di regole per la tutela dell’ambiente e delle popolazioni locali.

E allora, niente di meglio che corrompere instabili governi africani per conquistare nuove terre dove impiantare sterminate coltivazioni. Per realizzare l’interesse di pochi, sfruttando le risorse naturali e le popolazioni locali che, una volta sfrattate dalle loro terre, si possono impiegare a costi ridicoli. A soffocare le proteste provvederanno i governanti, per qualche gruzzolo in più da godere nei loro palazzi dorati.

La Liberia si presta bene al land-grabbing, coi suoi tre milioni e mezzo di abitanti schiacciati tra la Costa d’avorio e la Sierra Leone. Le Nazioni unite mantengono ancora una forte presenza e il World Factbook della CIA conferma che «la sicurezza è ancora fragile». Quale migliore occasione ai più disinvolti investitori per negoziare lucrativi accordi col presidente del Paese, la lady di ferro Ellen Johnson Sirleaf?

Da Sime Darby e Golden Agri di Singapore fino al gigante dell’alluminio Arcelor Mittal senza dimenticare i “soliti” cinesi”. Dai minerali di base alla palma da olio, le risorse ben si prestano ai nuovi colonialisti, tra i quali l’Equatorial Palm Oil (Epo), impresa quotata a Londra con ambiziosi progetti di sviluppo di nuove piantagioni di palma da olio. Perché il palm oil, come i minerali di base, è sempre più richiesto. Ed Epo se la cava già bene, essendosi aggiudicata quasi 170mila ettari di terra. I colossi della finanza internazionale – come JP Morgan, Henderson, Blackrock e l’indiano Siva Group – si contendono a loro volta gli investimenti sulle operazioni.

«Cina e Stati Uniti stanno portando avanti grandi investimenti in Liberia –  dichiarava l’anno scorso Ahmad Zubir Murshid, chief executive di Sime Darby – Non possiamo attendere finché tutto sarà perfetto prima di investire o sarà troppo tardi». Così la società malese il 30 aprile 2009 ha acquistato dal governo liberiano per 847 milioni di dollari il diritto di sfruttare in esclusiva per 60 anni circa 220 mila ettari di terra (nelle contee di Gbarpolu, Bomi, Grand Cape Mount, Bong”). Con il progetto di coltivare palma e caucciù, costruire stabilimenti (per la produzione dell’olio vegetale e della gomma) e una raffineria (per l’olio vegetale), impiegando circa 22 mila liberiani nei successivi dieci anni. Ma a quali reali condizioni, al di là dei proclami di sostenibilità?

«Questa ondata di usurpazioni delle terre da parte delle economie emergenti ricorda le pratiche coloniali europee e statunitensi – commmenta Glen Barry, presidente di Ecological Internet – Le nostre proteste hanno fermato simili progetti in Papua Nuova Guinea e nella Costa d’Avorio. Le popolazioni locali hanno bisogno di un supporto globale per resistere a questa nuova ondata di imperialismo e per proteggere, preservare e ricavare beneficio dalle loro foreste in quanto tali».

Per maggiori informazioni:

– Liberia, http://farmlandgrab.org/cat/show/36

© Riproduzione riservata. Foto: iStock

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