Etichette nutrizionali sotto accusa negli Stati Uniti. Certo, l’indicazione sulle confezioni delle percentuali dei nutrienti presenti, anche in relazione alla dose giornaliera quotidiana consigliata (RDA), può aiutare a fare acquisti più consapevoli. Ma progetti di questo tipo si prestano anche a furbizie e strumentalizzazioni.

Ecco i fatti. Alla fine dello scorso gennaio, due delle principali associazioni di aziende che commercializzano alimenti e bevande negli Stati Uniti, la Grocery Manufacturers of America (GMA) e il Food Marketing Institute, annunciano in pompa magna un’iniziativa spontanea, sulla quale investiranno ben 50 milioni di dollari: la graduale introduzione di nuovi loghi e diciture sulle confezioni, per contribuire a ridurre l’obesità attraverso una maggiore consapevolezza dei consumatori.

Il programma viene chiamato “Nutrition Keys” e ingloba singole iniziative quali, per esempio, il programma “Scelte Intelligenti”. È qui che nascono i primi problemi. L’etichetta, infatti, viene concessa a prodotti tutt’altro che intelligenti, dal punto di vista degli ingredienti e delle calorie, come Froot Loops e Cocoa Krispies, cereali della Kellogg’s pieni di zuccheri. La Food and Drug Administration si esprime in maniera così critica che il programma Scelte intelligenti viene chiuso precipitosamente. 

A qualche mese di distanza, la comunità scientifica si interroga sull’opportunità di proseguire con un progetto che dovrebbe coinvolgere migliaia di prodotti, ma le cui motivazioni reali potrebbero essere assai diverse dalla dichiarata preoccupazione per la salute pubblica. Il New England Journal of Medicine ospita in questi giorni le riflessioni in merito di Kelly Brownell e Jeffrey P. Koplan, nutrizionisti dell’Università di Yale, molto scettici. Scrivono infatti: «A prima vista sembra tutto positivo: le aziende indicano la RDA e, in più, la quantità di “nutrienti da incoraggiare” presenti quali i sali minerali, le vitamine A, C e D, le fibre e così via. Ma non tutto è come sembra. L’elemento più sospetto è la tempistica: l’iniziativa è stata presa in maniera unilaterale proprio nel momento in cui le stesse aziende avevano iniziato una discussione con la Casa Bianca e la FDA sull’adozione di un sistema uniforme e chiaro. Nelle stesse settimane, inoltre, la FDA e i Centers for Disease Control avevano commissionato a un panel di esperti dell’Institute of Medicine (IOM) la stesura di linee guida per i loghi, dando loro tempo fino al prossimo autunno. Come mai le aziende non hanno aspettato? Forse per abituare i consumatori a scelte che poi difficilmente cambieranno?».

 

Di simboli, loghi e numeri non si discute solo negli Stati Uniti. La Svezia, per esempio, ha adottato il programma “Keyhole”, l’Olanda quello chiamato “Scelte” e la Gran Bretagna quello più popolare a livello internazionale, sviluppato presso l’Università di Oxford e basato su semafori, di prossima adozione in Australia e incaricato anche di segnalare gli alimenti per i quali è concessa o vietata la pubblicità nei programmi televisivi per i bambini.

Secondo Brownell e Koplan, le regole adottate in questi e in altri paesi vanno in controtendenza rispetto alle proposte di “Nutrition Keys”, soprattutto perché quest’ultima lascia troppo spazio alle scelte delle singole aziende; in questo modo – sottolineano – si rischia di avere una pletora di simboli diversi e, alla fine, del tutto inutili. Inoltre, il concetto di percentuale rispetto alla RDA non è semplice da comunicare a persone che stanno pochi secondi davanti a uno scaffale.

Non solo: introdurre un simbolo apposito significa permettere alle aziende di riempire gli alimenti di supplementi (per esempio vitaminici) solo per poter dire che il loro prodotto fornisce più RDA. Con i semafori tutto ciò non è possibile perché il colore è relativo solo agli ingredienti presenti prima di eventuali aggiunte. La riprova? Scrivono ancora i due esperti americani: «Le lobby alimentari hanno già speso non meno di 1,5 miliardi di dollari per tentare di opporsi all’adozione dei semafori da parte dell’Unione Europea, mentre sembra esserci un generale accordo sul fatto che questo sistema sia il più semplice ed efficace».

In realtà, concludono, è probabile che il successo di un certo metodo dipenda in gran parte da fattori culturali diversi tra paese e paese; sarebbe quindi molto importante convalidare le scelte con studi specifici e differenziati e non, come pretende di fare Nutrition Key, imporre metodi la cui efficacia non è mai stata provata. «Le aziende americane (e le multinazionali che hanno sede negli Stati Uniti) – concludono – possono per ora scegliere se collaborare con le autorità indipendenti o se procedere per la strada intrapresa con “Nutrition Key”, dimostrando così ancora una volta di essere in malafede. E trovandosi poi nella condizione di dover accettare regolamenti e normative imposte dalle autorità».

Agnese Codignola

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