Per il cacao e i suoi golosi derivati. l’attenzione alla sostenibilità dell’intera filiera, a partire dalla produzione agricola, il “sustainable sourcing” (tema già affrontato riguardo all’olio di palma), è cruciale.

La delizia dei prodotti finali tende a essere inversamente proporzionale alle condizioni di vita dei coltivatori, che si trovano soprattutto in Africa occidentale e centrale: Costa d’Avorio, Ghana, Camerun e Uganda forniscono l’80 per cento delle materie prime mondiali (la parte residua proviene dall’America meridionale e Sud-est asiatico).

Si è perciò attivato un percorso virtuoso, che dai consumatori della barretta di cioccolato muove a ritroso verso i coltivatori della bacca di cacao. Rispetto dell’ambiente e attenzione alle comunità locali sono i valori invocati da ONG ambientaliste, religiose, di consumatori, di tutela dei diritti umani e dei lavoratori. L’industria ha iniziato a rispondere.

Nel 2000 i colossi della prima trasformazione industriale delle bacche (Cargill, Barry Callebaut), insieme ai grandi utilizzatori di cacao, già riuniti nella Chocolate Manufacturers Association (Hershey, Cadbury, Mars, Nestlè, Ferrero, etc.), hanno istituito la World Cocoa Foundation (WCF). Lo scopo: sviluppare sinergie tra enti pubblici e privati per favorire le condizioni di vita e lavoro delle famiglie dei coltivatori di cacao, oltre a migliorare i metodi di produzione e la redditività.

Nel 2003 ha preso vita un consorzio internazionale – partecipato da UNDP (United Nations Development Programme), Conservation International, World Cocoa Foundation (WCF) e Alliance of Cocoa Producing Countries – per promuovere la sostenibilità delle colture di cacao in Africa Occidentale. Attraverso la diversificazione delle colture e recupero dei terreni impoveriti, formazione, know-how e tecnologie.

Nel 2006 la WCF, col supporto finanziario di USAID (US Agency for International Development) e dei colossi dell’industria dolciaria, ha lanciato un piano quinquennale per migliorare le condizioni di vita di 150 mila agricoltori e delle loro famiglie in Africa occidentale. Quattro principali aree di intervento:

– promozione di pratiche responsabili di lavoro (con attenzione a lavoro forzato e minorile).

– formazione su buone prassi agricole e tutela dell’ambiente.

– accesso dei minori all’educazione scolastica.

– lotta alla malaria (prima causa di morte infantile in Costa d’Avorio) e prevenzione dell’AIDS.

Un programma ambizioso a partire dal nome, “Healthy Communities”, che vorrebbe raggiungere tutti i suoi destinatari entro il 2011, e contribuire all’aumento dei loro redditi tra il 20 e il 55 per cento.

In parallelo, sono previsti programmi di formazione imprenditoriale per aiutare gli agricoltori a organizzarsi in cooperative e spuntare migliori occasioni di vendita delle merci.

Nel luglio 2008 è partito il Protocollo Harkin-Engel, messo a punto da una coalizione di organizzazioni industriali – tra cui la National Confectioners Association in the US (NCA) e la EU Association of the Chocolate, Biscuit & Confectionery Industries (CAOBISCO) – per combattere il lavoro forzato e minorile nelle coltivazioni di cacao dell’Africa occidentale.

Già dal 2005 queste organizzazioni avevano finanziato con oltre 15 milioni di dollari una serie di iniziative per certificare le condizioni di lavoro nelle piantagioni di cacao.

Secondo il Protocollo, entro il 1° luglio 2008 Ghana e Costa d’Avorio avrebbero dovuto presentare relazioni dettagliate per dimostrare che almeno il 50 per cento del cacao derivava da produzioni rispettose dei diritti essenziali dei lavoratori. Questi rapporti sono soggetti a una verifica indipendente dell’International Cocoa Verification Board (ICVB), al quale partecipano rappresentanti di ONG, università, sindacati e industrie. ICVB opera sul territorio, con un migliaio di collaboratori che lavorano su oltre 250 comunità agricole, circa mezzo milione di persone.

Il Protocollo è una realtà in divenire, cui occorreranno, ragionevolmente, 15-20 anni per realizzarsi. È già una spinta verso un cambiamento stimolato dall’industria e che dovrebbe essere sostenuto dai governi locali (che però non sempre si trovano in condizioni di stabilità), sotto la pressione dei consumatori sempre più attenti verso la sostenibilità del cacao.

A ottobre 2009 la “World Cocoa Foundation” ha annunciato il lancio del “Cocoa Livelihoods Programme”. Il programma, finanziato da 12 Iìindustrie dolciarie insieme alla “Bill & Melinda Gates Foundation”, mira a un significativo miglioramento delle condizioni di vita di circa 200mila coltivatori di cacao, nell’arco di cinque anni, in Ghana, Costa d’Avorio, Nigeria, Camerun e Liberia.

Il modello “Fairtrade”, che oggi interessa circa il 12-15 per centpodelle coltivazioni di cacao, ha contribuito a sviluppare la sensibilità dei consumatori su questi temi.

A livello locale, tuttavia, la produzione agricola è così frammentata (nel solo Ghana si stimano 700mila coltivatori di cacao) che gran parte dei suoi attori non è in grado di costituire le cooperative richieste per la certificazione “fair-trade”.

Viceversa, esistono comunità di agricoltori che sono pure accreditate per la certificazione (come Kuapa Kokoo, sempre in Ghana, 45mila iscritti) ma  vendono solo una minima parte del loro cacao come “Fairtrade”, e dedicano risorse a progetti d’interesse collettivo come la costruzione di scuole e di pozzi per l’acqua potabile.

Non esiste dunque una ricetta, una soluzione unitaria. I territori sono disseminati di piccole coltivazioni – ancora poco organizzate nella loro complessità –  in Paesi la cui posizione sulla “via di sviluppo” è assai varia.

In più, la tratta dei minori destinati al lavoro forzato nei campi è una piaga ancora attuale. Lo scorso settembre l’industria globale del cacao ha stanziato altri 7 milioni di dollari per sostenere azioni di contrasto al lavoro minorile e forzato in Costa d’Avorio e Ghana, nell’ambito del Protocollo “Harkin-Engel” e del Programma internazionale ILO per l’eliminazione del lavoro minorile (“International Labor Organisation’s International Programme on the Elimination of Child Labor”, ILO-IPEC).

 

Dario Dongo

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